La storia di un giullare e quella di un menestrello si sono incrociate giusto in tempo per passarsi un testimone prestigioso, il premio Nobel per la letteratura. Quasi venti anni dopo l’Accademia Reale Svedese ci è ricascata, minacciando l’establishment intellettuale di accorciare la frequenza temporale delle uova fuori dal cesto. Con buona pace di Philip Roth e Don De Lillo ancora una volta rimandati.

Eppure si tratta di un gran merito l’aver sottratto l’osso alla muta di cani di gran lignaggio per porgerlo, senza apparente competizione, al figlio di un dio minore. Un’altra volta. Sarà l’ultima? Non è dato sapere. Per certo già da ieri pomeriggio si stanno affilando le armi per l’anno che verrà.

“Perché, seguendo la tradizione dei giullari medievali, fustiga il potere e riabilita la dignità degli umiliati”, questa la motivazione che accompagnò la consegna del premio il 9 ottobre 1997.

Fo ci si ritrovò immediatamente, anzi forse la scena se l’era già immaginata. Ma l’Accademia aveva inteso premiare l’autore o l’interprete? L’autore, ossia il fustigatore del potere, è la parte più significativa del lavoro di Dario Fo. Eppure senza la sua, e solo la sua, capacità farsesca di far letteralmente esplodere la nota satirica dai suoi lavori, credo che la Commissione per il Nobel non sarebbe riuscita a sommare così tanti stupori e registrare così grandi scossoni da condizionarne la scelta.

Sul palcoscenico era magico: istrione impenitente, guitto fino alla vergogna, fisicamente invadente, sfrontato, irritante. Senza la sua presenza in scena alcune sue opere non sarebbero andate oltre la sera della prima. Quelle più didascaliche, quelle scritte a tambur battente sulla pressione della cronaca, quelle dovute per appartenenza politica, non ce l’avrebbero fatta ad entrare nel borderò di un premio Nobel. Ma quel signor premio Nobel, le sue cose, le metteva in scena di persona, di persona costruiva scenografie e disegnava costumi, di persona sceglieva o scriveva le musiche, di persona dirigeva una compagnia spesso non eccelsa eppure straordinaria. Sempre.

Figlio legittimo del teatro dell’arte, parente prossimo di quel Bertold Brecht fustigatore di ogni ‘resistibile ascesa’ verso il potere malato e spesso usurpato, occasionale compagno di viaggio in angoli di fiaba del mondo di Chaplin, Dario Fo è stato risarcito da un mondo più attento e culturalmente più attrezzato della rissosa provincia italica.

Il Nobel per la Letteratura 2016 è andato ad un altro irregolare, Bob Dylan, per aver “creato una nuova espressione poetica nell’ambito della tradizione della grande canzone americana”. La motivazione assomiglia alla dedica riservata al vincitore del Premio di qualità al Festival di San Remo. Eppure, nella sua banale semplicità, la motivazione proposta dall’Accademia svedese fornisce molte chiavi di lettura: la riconosciuta statura poetica, l’appartenenza ad una tradizione narrativa fondamentale nel mondo contemporaneo, l’apertura improvvisa alla canzone americana non più considerabile un’espressione letteraria minore, la promozione della musica popolare a forma d’arte, in qualche caso nobile.

Qualcuno – Furio Colombo questa mattina in radio – non ha esitato a paragonare la rivoluzione di Dylan a quella di James Joyce (che il Nobel non lo vinse mai!). La rivoluzione di Joyce non è nei contenuti ma nella loro organizzazione in pagina, non è nel significato delle parole ma nella loro valenza significante.
E’ questo il valore riconosciuto all’opera di Dylan, riconoscimento che il suo popolo, fin da piccolo, gli aveva tributato senza sospettare di acclamare un futuro Nobel. E probabilmente indifferente a tanto formale clamore.
Bravo Bob, ci sentiamo.