E’ la Campania la regione italiana dove si muore di più per cattiva gestione della sanità. Il tasso di mortalità standardizzato è di 91,04. Ma la Sicilia segue a ruota con una mortalità di 86,00 seguita a sua volta dalla Calabria con 82,4 e dal Lazio con 79,94.

Il tasso minore di mortalità lo registra il Trentino con con 71,62. Si tratta, naturalmente, di dati statistici ma comunque di elementi preoccupanti se si pensa che tutte le Regioni del Sud stanno nella parte alta della classifica, denunciano, cioè, una mortalità sanitaria più alta rispetto al Nord.

I dati sono stati raccolti ed elaborati dai medici dirigenti del Cimo, il sindacato autonomo dei medici, e sono stati presentati a Firenze durante il congresso nazionale della categoria ma nessuno sembra essersene accorto a lungo. Oggi è il Mattino di Napoli a dare il via all’analisi di questi dati e lo fa in maniera inclemente verso la propria regione, che è regina di mortalità, ma non soltanto.

I dati sui quali i medici dirigenti del Cimo hanno effettuato l’elaborazione provengono dall’Agenas, l’Agenzia nazionale per la valutazione in sanità e dall’istat.

Quello che emerge è un dato tanto chiaro quanto preoccupante, ma anche correggibile dall’azione politica se solo lo si volesse. Incrociando i dati di mortalità con i dati di spesa, infatti, emerge chiaramente che al diminuire della spesa sanitaria pro capite aumenta la mortalità. Una equazione perfino scontata ma ora confermata dai dati.

Così Campania, Sicilia e Calabria che hanno il minor finanziamento sanitario pro capite d’Italia mostrano anche i maggiori tassi di mortalità standardizzata (standardizzata significa che il calcolo è fatto al netto delle differenze di sesso e altre differenziazioni di natura scientifico sanitaria).

Non si tratta di quella che viene comunemente chiamata malasanità, si badi bene. Non c’è un errore medico, un soccorso ritardato, una diagnosi non fatta dietro queste morti. Certo anche la malasanità rientra in questa classifica. ma più in generale si tratta di assistenza sanitaria non sufficiente a salvare vite che si sarebbero potute salvare. Solo a titolo esemplificativo si può dire che in questa classifica rientrano, ad esempio, tumori diagnosticati troppo tardi magari per mancata prevenzione o per esami prenotati a un anno di distanza o semplicemente perché il paziente vive in un’area montana e non ha fatto gli esami per difficoltà di spostamento non avendo il centro di diagnosi nelle vicinanze. Solo esempi, naturalmente. Ma c’è anche tanto altro.

Per riequilibrare questo divario nel 2017 si è iniziato a cambiare i parametri di divisione dei fondi che fino ad oggi sono esclusivamente legati al tasso di dinamicità delle popolazioni e al tasso di anzianità che premia, in risorse, il Nord. Per la prima è stato introdotto anche il disagio sociale come elemento di calcolo. Questo aiuta nella ripartizione principalmente la Campania, la Calabria e la Puglia. Certo anche la Sicilia ma meno delle altre regioni del Sud. Qui il tema è anche legato al tasso di compartecipazione (La Regione paga il 49,11% della propria spesa sanitaria) e a tagli che in passato sono stati effettuati con il macete più che con il bisturi senza guardare troppo, cioè, agli sprechi e alle eccellenze e colpendo, spesso, più le seconde che i primi.

L’inversione di tendenza culturale è dietro l’angolo. Al nuovo governo regionale il compito di prenderla al volo, insistere e produrre risultati. Perché il primo modo che il sistema dell’informazione ha per attaccare un governo è sempre quello che fa più leva sull’immaginario collettivo: la malasanità.

Una azione mirata può togliere questo strumento dalle mani dei detrattori ma soprattutto può migliorare le condizioni di salute e di assistenza dei siciliani.