“La vera essenza della mafia e di quella siciliana in particolare da sempre è stata quella di cercare di implementare il rapporto esterno con il potere politico, istituzionale, religioso. La vera forza non deriva soltanto dall’uso delle armi e dall’applicazione della violenza, ma anche dalla capacità di coltivare rapporti con il potere”.

E’ questo l’incipit del magistrato Nino Di Matteo, nel suo lungo intervento condotto in occasione della conferenza su “Giustizia, corruzione e mafia”, presso il palazzo arcivescovile di Monreale, in occasione della seconda edizione di “Avvenire… per passione! Festa”.

All’incontro, voluto e condotto da Mons. Michele Pennisi, Arcivescovo della Diocesi Monreale, erano presenti l’arcivescovo Silvano Tomasi, nunzio apostolico e membro del Dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale, Marco Tarquinio, direttore di Avvenire, Antonino Di Matteo, magistrato della Direzione nazionale antimafia, Vittorio V. Alberti, filosofo e direttore della rivista on line “Sintesi dialettica”.

“Negli ultimi anni – ha spiegato Di Matteo – abbiamo notato come mafia e corruzione non sono più due mondi distinti, ma rappresentano un sistema integrato. Si alternano metodi violenti con metodi corruttivi, condotti nei confronti degli esponenti della Pubblica Amministrazione, di politici di livello nazionale o di sindaci e amministratori comunali”.

Una amara riflessione dovuta alla consapevolezza che “a livello normativo abbiamo strumenti finalmente efficaci, rigorosi, per combattere la mafia militare, quella degli omicidi, delle estorsioni, del traffico di stupefacenti. Ma siamo disarmati rispetto alla capacità delle mafie di penetrare nel mondo istituzionale e della Pubblica Amministrazione”.

In Italia sono custoditi in carcere 60.000 detenuti. Solamente poche decine scontano una pena definitiva per reati contro la Pubblica Amministrazione, come corruzione, concussione, turbativa d’asta. “E’ un dato preoccupante. Alimenta il senso di impunità. Nella stragrande maggioranza dei casi, con il sistema di prescrizione del reato, anche dove dimostriamo la corruzione, gli imputati escono indenni dal processo penale. E’ una sconfitta per la giustizia, per le persone offese, per gli amministratori coraggiosi che con difficoltà provano ad amministrare, e diffonde un senso di rassegnazione, di accettazione della corruzione come una condotta ormai naturale, necessaria nell’epoca del consumismo e dello sviluppo”.

Di Matteo ha spiegato come anche i magistrati avvertano il pericolo di amministrare una giustizia a due velocità, pericolosa e spietata con la criminalità comune, ma inefficace contro la criminalità dei colletti bianchi, del potere.
Il magistrato si è anche soffermato sul rapporto tra Chiesa e sistema mafioso: “La Chiesa negli ultimi anni è sempre più onesta nel riconoscere l’esistenza di questo rapporto. Soprattutto nella nostra terra i rapporti di collusione e di tolleranza sono stati significativi, numerosi. Forse questo ha alimentato quella finta religiosità che i mafiosi ostentano. Parte della Chiesa forse si è accontentata di queste finte manifestazioni di religiosità, e si è limitata a condannare il fenomeno mafioso. Da credente e magistrato non credo che ci sia un fenomeno mafioso più antitetico al credo cristiano e al Vangelo”.

“E’ stato bello – continua il Sostituto Procuratore – importante, ascoltare le parole di Papa Giovanni Paolo II ad Agrigento, nel 1993, quando l’offensiva mafiosa in Sicilia, a Roma, a Firenze, a Milano era al culmine della sua potenza. E poi belle e incoraggianti sono state per gli operatori di giustizia e per i cittadini onesti le parole vibranti di Papa Francesco nel 2014.

Da magistrato e da credente spero che a tutti i livelli, in ogni occasione, a partire dalle alte gerarchie ecclesiastiche fino al parroco di campagna, arrivi il richiamo di condanna alla mentalità mafiosa, con la concretezza del riferimento ai fatti che accadono. I mafiosi temono molto questa parola vibrante, concreta. In tante indagini, durante le intercettazioni, ho colto la loro preoccupazione per una Chiesa forte nel denunciare il sistema mafioso, la rabbia contro il clero che ha il coraggio della parola, del lavoro su territorio. Ricordo nel 2013 la rabbia di Riina che, durante un’intercettazione, parlava di padre Puglisi, che aveva il torto, ai suoi occhi, di non fare il parrino. Ed invece stava sul territorio, lavorava con i poveri, sottraeva i giovani alla criminalità.

Le mie parole non vogliono auspicare da parte della Chiesa un intervento punitivo, spetta allo Stato, quanto la denuncia della gravità e dell’antiteticità dei valori mafiosi nei confronti dei valori cristiani.

Il cristianesimo non poteva e non può considerassi una camera di preghiera, ma deve entrare nella vita quotidiana.
Di Matteo ha anche stigmatizzato la mediocrità, cioè il comportamento guidato dalla rinuncia.

In questo fase storica nel nostro paese tante persone sono vinte dalla rinuncia al volere cambiare le cose. Mi piace andare nelle scuole, confrontarmi con i giovani, mi fa paura sentire la rassegnazione: “Ma chi te lo fa fare, tanto non cambierà niente”.

Infine un asperanza: “Spero che nel nostro paese si riscopra da parte dei più giovani l’amore per la politica, per l’impegno sociale religioso, per tutto ciò che significa provare a cambiare le cose, per provare, nonostante la consapevolezza di ricevere delusioni e di sbagliare, a lasciare una piccola traccia nella società in cui viviamo”.

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