Grande successo ieri sera al Teatro Massimo di Palermo per la prima nazionale di “Jenufa”, il capolavoro del realismo slavo riletto dal grande regista Robert Carsen.
Lunghi i minuti di applausi tributati all’opera del compositore ceco Leóš Janáček nell’allestimento dell’Opera di Anversa. Repliche fino al 2 novembre.

Sul podio il grande Gabriele Ferro, direttore musicale del Teatro Massimo. Un allestimento contemporaneo per un’opera di ambientazione popolare, composta tra il 1894 e il 1903, e rappresentata per la prima volta nel teatro di Brno il 21 gennaio del 1904 poiché precedentemente rifiutata dal direttore del Teatro Nazionale di Praga che non ne apprezzò il linguaggio moderno e le sonorità di stampo nazionale.

Il libretto è tratto dalla piéce teatrale Její pastorkyňa (La sua figliastra, 1890) di Gabriela Preissová, esponente di una certa importanza nel teatro cèco di fine secolo, ambientato nei villaggi lontani dai grossi centri. Il soggetto ricorda la nostra letteratura verista per l’ambientazione popolare e l’intensità delle situazioni. Jenůfa è una giovane donna prima promessa sposa a Števa, da cui aspetta un figlio, ma poi da questi rifiutata; per evitare uno scandalo la matrigna Kostelnička decide di uccidere il bambino e convincerla a sposare Laca, l’uomo che l’ha sfigurata per gelosia nonché fratellastro di Števa; quando, durante il matrimonio, viene scoperto l’infanticidio, Jenůfa trova la forza per perdonare la matrigna e iniziare una nuova vita insieme a Laca.

L’opera dopo la prima rappresentazione passò quasi in sordina fino a quando calcò le scene praghesi il 26 maggio 1916, ricevendo critiche estremamente positive. Dopo dodici anni dalla prima, Janáček ottenne il successo che gli spettava di diritto. In Italia venne rappresentata per la prima volta al Teatro La Fenice di Venezia, l’11 marzo del 1941. A Palermo è stata rappresentata una sola volta, nel 1979.

Carsen dal 1999 ha messo in scena più della metà delle opere composte da Janáček. In particolare Jenůfa, nel 2004, per l’Opera di Anversa. In una scena spoglia, dove il suolo in terra battuta ci parla con immediatezza della campagna in cui si svolge l’azione, dominano le grandi finestre e porte che fisicamente rappresentano il villaggio e che vengono spostate a comporre i vari ambienti dell’opera. Partendo dal fatto che la gravidanza di Jenůfa viene tenuta nascosta a tutti per mesi perché la matrigna rinchiude la ragazza in casa, Carsen ci mostra il voyeurismo degli abitanti: dalle finestre si vedono occhi che scrutano, dalle porte si affacciano curiosi, non esistono pareti solide ma solo aperture che possono da un momento all’altro cedere alla pressione esterna e rendere pubblico ciò che era privato.

Un’opera corale, in cui ai protagonisti si affiancano una moltitudine di personaggi secondari ma non per questo meno importanti, dal sindaco con moglie e figlia fino al pastorello analfabeta, che nella regia di Carsen ricevono ciascuno la giusta attenzione. Elemento fondamentale è poi l’acqua: l’acqua gelida del fiume in cui Kostelnička va a gettare il bambino per permettere alla figliastra di sfuggire alla vergogna e alla riprovazione del villaggio e consentirle di sposare Laca che ne è innamorato, il ghiaccio che restituirà il cadaverino proprio durante le nozze di Jenůfa, ma anche la pioggia dorata redentrice che in ultimo abbraccia la coppia dopo tante sofferenze: il ghiaccio si è definitivamente sciolto, l’acqua è di nuovo simbolo di vita, della nuova vita di Laca e Jenůfa.

Jenůfa o, più correttamente, Její pastorkyňa (La sua figliastra) è la terza opera di Janáček. La stesura della partitura avvenne in un periodo difficile per il compositore che dovette superare la prematura morte dei due figli (Vladimir morì nel 1890, Olga nel 1903); dopo anni di intenso lavoro e di studi, quello che ne risulta è
un’opera che rappresenta la summa delle sue ricerche etnologiche e stilistiche. La novità della composizione
sta nello stile musicale, che oltrepassa il modello del dramma wagneriano dei Leitmotive: infatti non troviamo più lo sviluppo di temi conduttori ma elaborazioni di semplici cellule, che ritornano all’interno dell’opera con delle continue variazioni, mai uguali. “Janáček studiò le inflessioni della lingua ceca, ricercandone la musicalità. Il nuovo linguaggio musicale che ne deriva è funzionale alla drammaturgia, poiché permette di mettere in luce la sonorità della sua lingua natìa e lo spessore psicologico dei personaggi che, attraverso le inflessioni del parlato, esternano sentimenti e mutamenti di stati d’animo.

L’orchestra, assecondando le cadenze del parlato e sostenendo le voci, non fa da sfondo ai dialoghi ma diviene protagonista”, come scrive Silvia Augello nella sua introduzione all’opera.“Jenůfa è un’opera sospinta dal vento furioso di una musica tutta figurazioni discendenti o ruotanti su se stesse in modo implacabile, come se la musica mimasse lo stesso flusso inarrestabile della vita”, scrive Franco Pulcini nel programma di sala. Janáček abbandona la citazione diretta delle canzoni popolari e reinventa il folclore.

Jenůfa è per Janáček la fanciulla mite e buona, gentile e ubbidiente con gli anziani, la giovane istruita che insegna a leggere a un pastorello e che saprà essere, purtroppo per pochi giorni soltanto, una madre premurosa. Števa è un giovane sciocco, borioso e immaturo. Non è cattivo, ma semplicemente arido. Lo stereotipo di un vacuo galletto di paese. Kostelnička, la matrigna, è il personaggio più altamente tragico dell’opera, la vera protagonista in senso tradizionale.
Nell’originale cèco infatti l’opera s’intitola Její pastorkyňa (La sua figliastra), un titolo che pone immediatamente la matrigna al centro dell’azione; il titolo Jenůfa si diffuse all’estero per la traduzione di Max Brod, il quale propose l’esotico nome della ragazza, più invitante per il pubblico di quello originale. Il carattere austero e altero di Kostelnička, la conoscenza che ha delle cattiverie del mondo la spingono a prendere su di sé il peccato della figliastra, ovviare con un delitto a ciò che la società avrebbe giudicato un peccato, ed espiare alla fine la sua colpa.

L’uccisione del bambino, per la sua mentalità ristretta e bigotta, permeata di rettitudine dogmatica, è un gesto d’amore, un’azione a fin di bene, come spiega nella confessione pubblica del finale.

“Il soggetto della ragazza madre – scrive ancora Pulcini – è scottante e originale. Scegliere per protagonista una giovane incinta, e farle inoltre sfigurare una guancia con un colpo di coltello, non ha precedenti operistici. Il dramma della donna sedotta e abbandonata in stato interessante alla mercé di una società ostile, quando non addirittura malvagia con chi esce dai suoi schemi, è una verità sociale imbarazzante anche e soprattutto per il pubblico dell’opera: la borghesia”.