Un anno di silenzio, dolore e attese. Paolo Piccolo, il giovane detenuto napoletano vittima di una violenza inaudita dietro le sbarre, è morto nella notte tra il 17 e il 18 ottobre all’ospedale “Moscati” di Avellino. Aveva solo 26 anni.
Una spedizione punitiva finita in tragedia
Era il 24 ottobre 2024 quando Paolo Piccolo venne aggredito all’interno del carcere di Avellino, nella sezione “primo piano destro”. Un gruppo di detenuti prese in ostaggio un agente penitenziario per sottrargli le chiavi della sezione e scatenare una spedizione punitiva brutale: 26 coltellate, una delle quali perforò un polmone, e gravi colpi alla testa che gli provocarono lo sfondamento del cranio. Ferite che lo condannarono da subito a uno stato vegetativo.
Il calvario sanitario e l’abbandono
Piccolo fu subito ricoverato in condizioni critiche al “Moscati” di Avellino, dove iniziò un lungo ricovero. Per un breve periodo fu trasferito al centro riabilitativo “Don Gnocchi” di Sant’Angelo dei Lombardi, ma le sue condizioni peggiorarono rapidamente. Tornò al “Moscati”, dove rimase fino all’ultimo giorno della sua vita.
Secondo l’avvocato della famiglia, Costantino Cardiello, e il garante regionale per i diritti dei detenuti, Samuele Ciambriello, durante il ricovero non furono garantite cure adeguate. Più volte si è chiesto che Paolo fosse trasferito in una struttura più idonea alla riabilitazione neurologica. La risposta? “Non possiamo accudirlo”, dissero dal centro.
Una battaglia per la giustizia che continua
Nel frattempo, la giustizia ha iniziato il suo lento percorso. Sono undici i detenuti finiti a processo con l’accusa iniziale di tentato omicidio. Dopo la morte del giovane, l’accusa si trasformerà in omicidio aggravato. Tre degli imputati, che avevano scelto il rito abbreviato, sono già stati condannati a 27 anni e due mesi di reclusione complessivi nel luglio 2025.
La famiglia, insieme ad alcune associazioni, non ha mai smesso di chiedere verità e giustizia. Ha presenziato a ogni udienza, ha denunciato pubblicamente le carenze assistenziali e ha lottato per impedire che quanto accaduto finisse nel dimenticatoio.
L’agonia di un corpo dimenticato
Durante il lungo ricovero, le condizioni fisiche di Paolo sono peggiorate drasticamente. Il suo peso era sceso sotto i 25 chilogrammi. Un dato che parla da solo. Era diventato un corpo fragile, inascoltato, immobile. Per quasi un anno ha vissuto in stato vegetativo, sospeso tra la vita e la morte, in un letto d’ospedale. Nessuna cura ha potuto ridargli autonomia o coscienza. Fino a quella notte d’ottobre, in cui il suo cuore ha cessato di battere.
Una giustizia che deve andare fino in fondo
Il processo continuerà nei prossimi mesi con le nuove accuse. L’obiettivo, ora, è accertare tutte le responsabilità e garantire che fatti simili non si ripetano. La famiglia non intende fermarsi. “Vogliamo solo verità”, hanno ribadito più volte. E anche se Paolo non c’è più, la sua storia resta. Come monito. Come ferita aperta. Come dovere morale per chi ha il compito di fare giustizia.






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