La Sicilia, si sa, è terra di miti e leggende. Per citare un esempio, ai tempi dei greci si pensava che il rapimento di Persefone fosse avvenuto sulle rive del lago di Pergusa, dalle cui acque Ade emerse per portare la futura sposa nel regno degli inferi. Gli ellenici collegavano tale accadimento mitico addirittura alla nascita del tempo, inteso come alternarsi delle stagioni, poiché in seguito ad esso Zeus decretò che Persefone avrebbe trascorso sei mesi all’anno con Ade negli inferi e sei mesi con la madre Demetra sulla Terra, portando con sé l’avvento della primavera. 

Ma oltre agli incantevoli racconti ereditati dal mosaico di popoli che nel corso dei secoli ha abitato questa terra, ne esistono di altri che sono dannosi, poiché denigratori dell’isola così come dei suoi abitanti. È questo il caso delle dicerie secondo cui la Sicilia sottragga di anno in anno miliardi di euro allo Stato centrale, venendo sostanzialmente “mantenuta” dalle produttive regioni del Nord.

La Corte dei conti ha formalmente smentito questa ricostruzione post-coloniale, riconoscendo una situazione di grave squilibrio nei rapporti finanziari tra lo Stato e la Regione Siciliana, derivante dall’errata o incompleta applicazione delle norme statutarie che disciplinano la ripartizione delle entrate tributarie.

Il punto centrale del rilievo riguarda l’articolo 37 dello Statuto speciale della Regione Siciliana, il quale stabilisce che le imposte sui redditi d’impresa prodotti in Sicilia –anche da aziende la cui sede legale si trova altrove – spettano alla Regione. Ciò significa che lo Stato dovrebbe attribuire alla Sicilia la quota d’imposta corrispondente alla produzione economica effettivamente generata nel territorio regionale.Tuttavia, la Corte ha accertato che questo principio è stato sistematicamente disatteso. Per anni, lo Stato ha trattenuto la quasi totalità del gettito relativo ai redditi prodotti in Sicilia da imprese con sede fuori regione, senza procedere a una determinazione reale della quota spettante alla Regione.Secondo l’analisi contabile dei magistrati, la perdita cumulata per la Regione dovuta a queste trattenute irregolari ammonterebbe a diverse decine di miliardi di euro nel corso degli anni, incidendo in modo strutturale sulla capacità finanziaria della Sicilia e alimentando il debito regionale.La Corte ha inoltre evidenziato che lo Stato, attraverso il meccanismo del cosiddetto “concorso alla finanza pubblica”, ha richiesto alla Regione versamenti annuali superiori a un miliardo di euro, nonostante la stessa fosse già privata di parte consistente delle proprie entrate tributarie. Questo ha comportato una condizione paradossale in cui la Regione, pur essendo titolare per Statuto di una quota rilevante del gettito fiscale, si è trovata costretta a indebitarsi per coprire servizi essenziali e funzioni pubbliche.Inoltre, bisogna ricordare che la Regione Siciliana sostiene da decenni spese superiori alla media nazionale a causa delle competenze che le derivano dallo Statuto speciale. In base all’assetto definito dagli articoli 14 e 17 dello Statuto infatti, la Regione esercita direttamente funzioni che altrove sono di competenza statale o cofinanziate da fondi nazionali. Tra queste, figurano la sanità pubblica, l’istruzione secondaria e professionale, la tutela del territorio, la protezione civile, il finanziamento del trasporto pubblico e il sostegno agli enti locali. Spese che, alla luce dei rilevamenti della Corte, sono chiaramente insostenibili per le casse dell’amministrazione.

 Secondo questa prospettiva, l’idea di una Sicilia “parassita” si rivela una semplificazione fuorviante, utile solo a mascherare un sistema di oppressione che mira a svuotare di significato lo Statuto speciale, trasformandolo da garanzia di autonomia in un meccanismo di contenimento per lo sviluppo dell’isola. 

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