L’analisi delle politiche economiche italiane degli ultimi vent’anni rivela una sorprendente continuità al di là dell’alternanza dei governi. Nonostante differenze ideologiche anche marcate, le principali forze politiche hanno condiviso un impianto teorico comune: la convinzione che la stabilità dei conti pubblici e la conformità ai parametri finanziari internazionali costituissero la precondizione essenziale per attrarre capitali e accrescere la produttività del Paese. Questa prospettiva ha legittimato un progressivo ridimensionamento della spesa pubblica e ha promosso un modello di mercato del lavoro fondato sulla flessibilità intesa, nella pratica, come precarietà.
L’applicazione rigorosa di questa ortodossia ha prodotto esiti rilevanti sul piano sociale. Il caso della Grecia costituisce, sotto questo profilo, un laboratorio estremo ma paradigmatico. Le misure di austerità imposte durante la crisi del debito hanno generato effetti devastanti: un incremento significativo dei suicidi rispetto alle serie storiche, un crollo della capacità operativa del sistema sanitario e un aumento misurabile della mortalità associata a patologie altrimenti prevenibili.
Nel contesto italiano, la crisi del 2011 ha rappresentato il punto di massima espressione di questo paradigma. L’azione del governo Monti è stata caratterizzata da un eccesso di zelo nell’applicazione del mantra sopracitato. La riforma delle pensioni ha modificato in modo repentino i percorsi di vita di migliaia di persone attraverso l’innalzamento immediato dell’età pensionabile, circostanza che ha generato la crisi dei cosiddetti “esodati”, a cui è stato riservato un posto di rilievo nella letteratura sociologica più recente. La stretta fiscale, introdotta con la promessa di mettere in sicurezza i conti, ha inciso direttamente sulle famiglie, che si sono ritrovate a dover affrontare nuove imposte e una pressione crescente proprio mentre l’economia rallentava. Contemporaneamente, la riduzione degli investimenti pubblici nei servizi essenziali ha indebolito il tessuto produttivo, mentre le modifiche al mercato del lavoro non hanno generato nuove opportunità, ma hanno alimentato un senso diffuso di incertezza. Il risultato è stato un brusco peggioramento dei principali indicatori economici: il PIL ha subito una caduta che non si vedeva da decenni, la disoccupazione ha raggiunto livelli critici e il potere d’acquisto delle famiglie si è eroso.
Negli anni immediatamente successivi, la logica che aveva ispirato quella stagione non è stata abbandonata. Al contrario, ha continuato a plasmare la filosofia delle riforme. L’idea che la flessibilità del lavoro fosse la chiave per rilanciare la competitività è stata posta a fondamento del “Jobs Act”, promosso dal governo Renzi. Presentato come uno strumento capace di modernizzare il mercato del lavoro e favorire l’occupazione, ha in realtà accentuato la precarizzazione, riducendo le tutele proprio nel momento in cui serviva maggiore stabilità. L’indebolimento delle garanzie in caso di licenziamento e la moltiplicazione delle forme contrattuali flessibili hanno prodotto un mercato più frammentato, nel quale la continuità professionale è diventata un obiettivo sempre più difficile da raggiungere. Così, invece di correggere gli squilibri creati negli anni della crisi, le riforme successive li hanno consolidati, rendendo il Paese incapace di generare crescita.
La nostra analisi prende piede da una constatazione evidente: i paradigmi economici che per anni hanno indicato la flessibilità estrema e la compressione delle tutele come condizioni necessarie alla crescita non hanno prodotto i risultati promessi. Le economie che hanno puntato sulla precarietà come strumento ordinario di regolazione del lavoro non hanno registrato né aumenti significativi della produttività né miglioramenti strutturali in termini di innovazione o investimenti. Gli indicatori economici mostrano invece un legame chiaro tra la stabilità contrattuale e la capacità competitiva nel lungo periodo.
La riforma del mercato del lavoro attuata in Spagna nel 2021 offre un esempio particolarmente significativo per comprendere come la stabilizzazione dei rapporti di lavoro possa costituire un motore di crescita. Per decenni, la Spagna aveva presentato uno dei più alti tassi di lavoro temporaneo d’Europa, manifestando le stesse patologie di Italia e Grecia. La riforma ha invece introdotto un cambiamento radicale limitando notevolmente la possibilità di ricorrere ai contratti a termine in caso di assunzione.
Gli effetti di questa inversione di paradigma sono stati rapidi e profondi. Nel giro di pochi trimestri, la percentuale di lavoratori temporanei ha subito una riduzione senza precedenti, accompagnata da un aumento significativo dei contratti permanenti, anche in settori tradizionalmente esposti alla stagionalità.
A livello macroeconomico, la maggiore stabilità del lavoro ha contribuito a consolidare la domanda interna: un reddito meno volatile ha aumentato la propensione delle famiglie a consumare e a pianificare spese di medio periodo, con effetti positivi sulla crescita complessiva. Parallelamente, la continuità dei rapporti di lavoro ha favorito una crescita del capitale umano incorporato nelle imprese, rendendole più competitive e meno esposte agli shock esterni.
La portata di questa trasformazione è stata riconosciuta anche da istituzioni internazionali tradizionalmente vicine alle politiche di flessibilizzazione del lavoro. Il Fondo Monetario Internazionale, in particolare, ha valutato positivamente l’esperienza spagnola, riconoscendole il merito di aver migliorato la stabilità occupazionale senza compromettere la crescita, ma anzi rafforzandone le basi strutturali.
Si tratta di un riconoscimento rilevante: indica una revisione sostanziale delle letture economiche dominanti e segnala come la stabilizzazione dei contratti possa essere considerata, a tutti gli effetti, un elemento propulsore della crescita e non un freno.
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