«Le teste si possono tagliare o contare. Nel 1931 il regime fascista scelse entrambe le soluzioni e impose a tutti i professori universitari un giuramento di fedeltà al Duce. Giurarono in 1238. Solo in dodici si rifiutarono: furono le teste che il fascismo tagliò. Eroi per caso di un’Italia civile a cui era rimasta solo quell’estrema decenza: il coraggio di dire di no. Questo è il racconto di uno di loro, uno di quei dodici, ed è liberamente ispirato alla figura di Mario Carrara».

Così Claudio Fava, autorevole scrittore, drammaturgo e giornalista, introduce argomento e tema dell’atto unico “Il giuramento”, novità assoluta che debutterà il 5 dicembre alla sala Verga, con repliche fino al 17.

La produzione s’inserisce in quel filone di teatro civile che da sempre contraddistingue lo Stabile di Catania. L’allestimento punta sulla regia di Ninni Bruschetta e un cast di qualità in cui spicca il nome di David Coco nel ruolo del protagonista. Accanto a lui Stefania Ugomari Di Blas, Antonio Alveario, Simone Luglio, Liborio Natali, e ancora Pietro Casano, Federico Fiorenza, Luca Iacono, Alessandro Romano. Lo spettacolo ha per colonna sonora le musiche di Cettina Donato, scene e costumi di Riccardo Cappello, luci di Salvo Orlando.

Racconta Claudio Fava: «Carrara fa il medico legale in un tempo abituato a censire gli uomini e le anime con la fredda geometria insegnata da Lombroso: le misure della fronte, del cranio, delle ossa… L’università insegna già a catalogare i segni e i sospetti sulle razze, il sapere è intriso conformismo, le carriere si fanno con la tessera del partito cucita in tasca, gli studenti indossano le camicie nere anche a lezione. Carrara, no. Del fascismo ha un ripudio estetico più che ideologico. Gli sembrano ridicole quelle camicie nere inamidate e ridicolo quel pugnaletto ai fianchi dei ragazzi, gli vengono a noia le orazioni patriottiche di certi suoi colleghi, il modo in cui a lezione hanno tutti smarrito il gusto del dubbio».

Carrara vive in un mondo suo, dove gli alti ideali non escludono il personale e privato disagio esistenziale: «Ha poco più di cinquant’anni – così lo descrive l’autore – ed è ancora un bell’uomo, solitario e ironico al tempo stesso. Vive accudito dalle proprie abitudini: il corredo di pillole per sedare claustrofobie e gastriti; la presenza irruenta di Tilde, la sua assistente, che si prende cura di lui; lo scrupolo con cui prepara le sue lezioni puntando a ribaltare ogni luogo comune. Attorno a lui corre l’Italietta conformista dei primi anni del fascio. Carrara lentamente intuisce l’agonia scellerata di un Paese in cui tutti sanno cosa sta accadendo ma pochi scelgono di stare dalla parte giusta».

Viene infine il momento della consapevolezza, della scelta senza ritorno: «Quando il rettore gli comunica data e prescrizioni del giuramento, ossia fedeltà al re e al duce, Carrara capisce di non poterlo fare. Non per eroismo né per ideologia. Solo che in quel rito a cui tutti si piegheranno per campare tranquilli, Carrara riconosce improvvisamente anche le menzogne della propria vita: le pillole disposte in buon ordine sulla tovaglia dei suoi pranzi, l’attrazione per questa donna che come lui non vuole adeguarsi, la delusione verso quei suoi studenti a cui ha regalato il proprio sapere».
Per una volta il resto è storia, non solo silenzio. E il finale di Fava è un silente grido di libertà: «Nell’ultima scena, mentre Carrara entra nel carcere in cui ha sempre lavorato come medico e vi ritorna stavolta da detenuto, gli altri professori pronunciano il loro giuramento. Il giorno dopo le cattedre dei reprobi verranno immediatamente riassegnate. Alla storia resteranno solo i nomi dei dodici che seppero dire di no a Mussolini. Mario Carrara fu uno di loro».

Questa vicenda emblematica supera i confini del ventennio, come evidenzia il regista Ninni Bruschetta: «Questa storia vera, che Claudio Fava ha riscritto in forma teatrale, è un insegnamento di coerenza e di rigore che non attiene solo ai casi estremi o addirittura storicizzati come il fascismo, ma è necessario per la vita stessa, perché quando ci pieghiamo alla prepotenza, alla volgarità della violenza in qualsiasi sua forma, siamo già morti. È inutile illudersi che chiudendo un occhio, cedendo un po’, rinunziando anche solo a una piccola parte della propria libertà, si possa ottenere qualcosa in cambio, perché non c’è commercio di libertà. La libertà e la vita sono la stessa cosa. La si può barattare solo con la morte. Per restituire in modo chiaro l’universalità di questo tema ho pensato a una messa in scena asciutta, fedele al testo. È importante che si percepisca l’atmosfera del tempo, il drammatico contesto storico sociale del fascismo, con la sua estetica, la sua retorica e i suoi segni spesso spacciati per simboli di una tradizione che, a ben guardare, risulta inventata e assume di conseguenza aspetti diabolici».

(foto fornite dall’ufficio stampa)