Raggiungiamo telefonicamente Ciro Lomonte, di ritorno dal Parco Nazionale degli Abruzzi, per commentare i tristi fatti di Genova, consapevoli che sul mondo delle libere professioni ricade, nella costruzione di opere pubbliche, una responsabilità nient’affatto trascurabile. Ci concede, com’è nel suo stile, ben oltre le nostre aspettative, un’ora abbondante che sottrae alle sue vacanze estive. Per chi non lo conoscesse ancora, Ciro Lomonte è architetto e Presidente dell’Associazione Magistri Maragmae, che promuove a Monreale una scuola siciliana di arte e artigianato di eccellenza (ma molti lo ricorderanno pure candidato alla poltrona di Sindaco del Comune di Palermo, oggi segretario del Movimento Siciliani Liberi, ndr). Comincia con il sottolineare un aspetto non complicato a suo dire. «L’Italia è l’unico Paese al mondo in cui l’architettura può essere progettata indifferentemente da ingegneri e architetti, come pure dai geometri. Persino un ingegnere nucleare ha titolo in Italia per progettare architettura!».

L’Unione Europea, nel 1985, ha chiesto all’Italia di adeguarsi per la libera circolazione dei mestieri, separando gli albi professionali, per cui gli ingegneri non possono esercitare la professione d’architetto (e naturalmente viceversa, ndr). Uno dei motivi per cui l’Italia ha fatto capolavori d’arte e d’architettura (solo) fino a che non si sono sentiti gli effetti del 1860, è l‘estensione a tutto il neonato Regno d’Italia della c.d. legge Casati, di riforma dell’ordinamento scolastico, con l’introduzione tra l’altro dei politecnici. «C’è un’insipienza che è una novità rispetto alla storia d’Italia: oggi c’è l’illusione che l’architettura sia prodotto di un genio solitario, un demiurgo, mentre prima il committente era oggettivamene un soggetto colto anche in questo campo. Come risultato, ad esempio, le case (anche a Palermo) fino alla Seconda Guerra Mondiale erano curate nei dettagli, poi oggettivamente scomparsi. Si costruivano, pertanto, case (persino di edilizia popolare) che, per quanto semplici e piccole, erano anche durature. L’Italia – fra le altre assurdità della nostra epoca – è l’unico Paese al mondo in cui un orrendo condominio viene chiamato palazzo, termine architettonico quest’ultimo che configura solo una costruzione aulica, o per la famiglia che lo ha eretto ovvero per l’istituzione che rappresenta (è la differenziazione anglosassone, per intenderci, tra building e palace, ndr). La legge Casati ha privilegiato gli ingegneri come catalizzatori dell’industrializzazione del Paese (e dunque nella progettazione di ferrovie, industrie, ponti, strade eccetera). Dando a questa categoria professionale, nondimeno, la possibilità di costruire case».

Vitruvio sosteneva infatti che, per avere architettura, occorresse soddisfare simultaneamente tre requisiti: struttura, funzione e bellezza (quest’ultima risultato armonioso di euritmia, proporzione, simmetria, eccetera): l’ingegnere sta dunque attento alla struttura, facendo un blocco in cemento armato «che è la cosa più semplice da realizzare (nato nella seconda metà dell’Ottocento come tecnologia che avrebbe consentito delle economie, soprattutto sul versante della manovalanza necessaria)». E Lomonte ci ricorda in proposito la scuola per maestranze allestita dall’architetto Basile nella costruzione del Teatro Massimo, «in quella Sicilia che – con tutti i drammi – ha ancora i migliori mastri d’Italia: infatti, per la crisi edilizia, loro emigrano, ma fanno fortuna altrove».

Ciro Lomonte ci appassiona, quindi, con una vera e propria lezione sul calcestruzzo armato, ideato per combinare le diverse caratteristiche di resistenza a compressione della pietra ed a trazione del ferro. Questo purché l’impasto di cemento e inerti venga fatto bene (senza sabbia di mare, salina!) e le barre di ferro siano protette da 2 centimetri di copriferro. Le responsabilità dei cattivi manufatti in edilizia sono solitamente da imputarsi alle imprese che ricorrono ad espedienti per risparmiare, utilizzando ad esempio sabbia di mare, altamente corrosiva. A Palermo, invero, vi sono strutture in cemento armato del primo Novecento che potrebbero resistere persino a un bombardamento! Prudenzialmente (è bene saperlo!) il cemento armato si stima abbia una vita che non supera i 100 anni. In Paesi più ricchi, come, ad esempio, negli Stati Uniti e in Giappone, non si attende il degrado dell’edificio, lo si abbatte dopo un numero ragionevole di anni e lo si sostituisce.

Secondo Ciro Lomonte s’impone anche nella nostra città un piano urbanistico coraggioso, proprio nella considerazione che trattasi di una zona sismica, in presenza di «materiali scadenti, eccessive economie nella costruzione e la natura del cemento armato» che, per quanto detto, ha una sua vita non illimitata. Anche nelle ristrutturazioni edilizie, ovviamente, il ricorso ai prodotti appositamente in commercio (definisce buoni quelli della chimica italiana) non può tuttavia risultare efficace all’infinito!

Torniamo al punto di partenza. La responsabilità delle professioni. Premesso che una riforma opportuna degli anni Novanta ha posto rimedio al caos generato dal ‘68 nelle facoltà di Architettura italiane, il problema fondamentale secondo Ciro Lomonte è che l’architettura contemporanea è malata di presunzione da cento anni circa, come se qualsiasi cosa di innovativo si faccia sia buono di per sé. Gli architetti, in questo momento, hanno la fissazione di sperimentare materiali artificiali e forme bizzarre condizionate dall’uso dei software per il disegno. «La fiducia nei confronti dell’innovazione a volte sfocia nell’irrazionalità. Parlare di grattacieli eco-sostenibili, per esempio, è un ossimoro giacché sono invece strutture energivore!».

Il nostro architetto immagina una città dove prendere i veicoli solo se si vuole, non perché costretti dalla cattiva distribuzione delle funzioni urbane. Già nella seconda Carta di Gubbio, quella del 1990, si erano gettate le basi per la rigenerazione urbana. «Occorre un piano regolatore non vincolistico, dove non si demonizzi il privato in quanto tale ma lo si coinvolga nella sostituzione dell’orribile edilizia post bellica. Palermo andrebbe ridisegnata completamente. Servono architetti saggi, compositori e direttori d’orchestra allo stesso tempo, che sappiano scegliere i musicisti e li facciano suonare sinfonicamente».

Andando per case a Palermo, nella sua professione di architetto, una prima regola che mette subito in chiaro: «bisogna essere diffidenti, un problema comune è costituito da procedure di sanatoria non completate: su 150 mq di abitazione, a volte un terzo è abusivo!». Quanto ai problemi strutturali, occhio a lesioni e umidità. E adeguata attenzione va anche posta nei confronti degli impianti.

Abbiamo rivolto a Ciro Lomonte anche una domanda sulla sicurezza degli edifici scolastici, ove in alcuni casi il problema – a suo dire – è quello di certificazioni talvolta rilasciate con leggerezza e di lavori di ristrutturazione necessari per i quali le istituzioni scolastiche non dispongono di sufficienti finanziamenti.
La nostra amabile conversazione termina con una considerazione: i costi per la prevenzione in edilizia sarebbero meno di un terzo rispetto a quelli che comportano casi come quelli del Ponte Morandi a Genova. Senza contare l’indegno sacrificio di vite umane dovuto all’incuria! Se i politici fossero meno miopi dovrebbero affidarsi a professionisti seri per una seria pianificazione delle opere di rigenerazione del territorio antropizzato.