Settimo Mineo si spostava dalla gioielleria in corso Tukory e a piedi ha iniziato la lunga campagna elettorale che lo ha portato al vertice di Cosa Nostra.

Una lunghissima campagna iniziata il 17 novembre del 2017 quando è morto Totò Riina e non c’erano più ostacoli per ricostituire quelle che il procuratore capo di Palermo Francesco Lo Voi ha definito le “istituzioni” dell’organizzazione.

L’investitura che ha riportato il centro del potere a Palermo è avvenuta il 29 maggio scorso in una località che ancora segreta. Da quel momento la mappa del potere mafioso è cambiata. Aggiornata nel vertice e nei mandamenti.

I magistrati della Dda e i carabinieri, grazie alle intercettazioni e alle indagini sul campo, oltre alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, hanno ricostruito le più recenti dinamiche della consorteria mafiosa. A cominciare dalla composizione della Cupola, la cui formazione è avvenuta dopo vari tentativi e un lavoro lungo almeno 10 anni.

Il capo, dunque, è considerato l’ottantenne Settimo Mineo, gioielliere con negozio in corso Tukory e un curriculum criminale di peso. Con lui siedono, come vice, Filippo Salvatore Bisconti, capo del mandamento di Belmonte Mezzagno-Misilmeri, Gregorio Di Giovanni, alla guida di Porta Nuova, e Francesco Colletti, a capo di Villabate.

Nelle carte dell’inchiesta “Cupola 2.0” non ci sono i nomi degli altri rappresentanti dei mandamenti, che dovrebbero sedere nel direttivo, che, in base alle valutazioni degli inquirenti, dovrebbe essere composto in tutto da quindici personaggi. Agli atti dell’inchiesta c’è il nome di Pino Scaduto, che sarebbe stato designato per rappresentare Bagheria, o di Franco Picone e di un altro misterioso personaggio tra i quali ci sarebbe stato una sorta di ballottaggio per dirigere la Noce, il mandamento che Riina diceva di avere nel cuore.

Alla riunione della commissione del 29 maggio scorso, secondo quanto emerso dalle parole di Colletti, avrebbero preso parte personaggi della vecchia guardia arrivati dai paesi, gente di lunga militanza in Cosa nostra.

Nel provvedimento di fermo, più di tremila pagine, c’è un capitolo per ogni mandamento. Si comincia con Pagliarelli, guidato da Settimo Mineo, il capo della commissione, seguito da Salvatore Sorrentino, indicato come il capo della famiglia del Villaggio Santa Rosalia.

A lui, più volte finito in carcere, sarebbe stato proposto un ruolo di vertice nella Cupola, ma avrebbe rifiutato mettendosi agli ordini di Mineo. Nell’elenco, tra gli altri, ci sono Filippo Annatelli di corso Calatafimi, Gioacchino Badagliacca della Rocca-Mezzomonreale, Matteo Maniscalco e Giovanni Cancemi di Pagliarelli.

A Porta Nuova comanda Gregorio Di Giovanni assistito da Salvatore Pispicia, Massimo Mulè di Ballarò, Gaetano Leto del Capo, Gaspare Rizzuto di Palermo Centro, e altri rappresentanti di Porta Nuova come Giuseppe Di Giovanni, Michele Madonia e Luigi Marino.

Le analisi investigative si spostano poi sul mandamento di Misilmeri-Belmonte Mezzagno, territorio attraversato in passato da cruente guerre di mafia. Il capo è Filippo Salvatore Bisconti, che secondo il collaboratore di giustizia Sergio Macaluso sarebbe stato uno dei candidati al vertice della Cupola. Con lui una folta pattuglia di affiliati alla cosca coinvolti in diverse inchieste antimafia. Come l’ex capo Salvatore Sciarabba e Vincenzo Sucato, alla guida della famiglia di Misilmeri. E poi Giuseppe Bonano, Maurizio Crinò, Giusto Sucato e Giovanni Salvatore Migliore.

A Villabate comanda Francesco Colletti. Il suo vice è Francesco Caponetto. Fanno parte del sodalizio Fabio Messicati Vitale, Filippo Cusimano, Salvatore Troia, Michele Rubino. Nel procedimento viene indicato come indagato anche Stefano Albanese della famiglia di Polizzi Generosa.

La rinascita della commissione provinciale ha avuto un percorso travagliato. «Già nel dicembre del 2008 era emerso il tentativo di ricostituirla – spiegano gli inquirenti – ma i piani erano saltati grazie all’operazione “Perseo”. Successivamente, Cosa nostra aveva potuto comunque fare riferimento a livello decisionale ad un gruppo di esponenti mafiosi particolarmente carismatici. Tutte le indagini hanno permesso di affermare che la mafia ha la vitale necessità di trovare unione e rappresentatività comune sul territorio in grado di influire sulle dinamiche mafiose dell’intera provincia e, soprattutto, di relazionarsi con pari dignità con i capi di cosa nostra che operano fuori dalla provincia». Un percorso che sembra essere arrivato al traguardo la scorsa primavera.