Un mafioso che intestava beni e società ai prestanome, con l’obiettivo di evitare sequestri e confische. Ma le forze dell’ordine sono riuscite a ricostruire la sua lunga rete di ‘relazioni’ illegali.

Il Gup Lorenzo Matassa, accogliendo la richiesta del pm Dario Scaletta, ha dichiarato la colpevolezza di Francesco Paolo Maniscalco, 52 anni, già condannato per mafia e Francesco Paolo Davì, anche lui 52 enne condannato a due anni di carcere con la sospensione condizionale.

Maniscalco, difeso dall’avvocato Rosanna Vella, ha dovuto rispondere anche di un’estorsione all’attuale pentito Marco Coga, a cui avrebbe imposto l’acquisto del caffè da lui prodotto sebbene scadente per un bar che Coga gestiva in via Gustavo Roccella. Sentito dagli inquirenti, Coga ha fornito una versione diversa dei fatti, facendo cadere l’accusa.

A giudizio con il rito ordinario, davanti alla quinta sezione del tribunale, i presunti prestanome di Maniscalco, ovvero Daniela Bronzetti, Maria Doris Zaccheroni, Antonino Prester, Giovanna Citarrella, Paola Carbone, Antonella Cirino, Giuseppe La Mattina, Teresa Maria Di Noto, Salvatore Pietro Dolcemascolo, Laura Seminara e Giuseppe Calvaruso.

Sarebbero tutti colpevoli della fittizia intestazione di beni appartenenti in realtà a Maniscalco.

Le indagini erano partite dall’operazione Eleio che nel 2010 aveva assicurato le manette ai polsi di 15 persone appartenenti al clan mafioso di Porta Nuova. Intercettazioni, testimonianze e accertamenti della Guardia di Finanza aveva permesso di comprendere quanto vasto fosse l’impero economico di Maniscalco: l’allora procuratore aggiunto Antonio Ingroia e il pm Scaletta, nel 2012, avevano chiesto e ottenuto dal Gip Riccardo Ricciardi il sequestro di cinque società (valore stimato oltre 4 milioni di euro) operanti nel settore del commercio all’ingrosso di caffè, più due bar e una palestra riconducibilia Maniscalco. Beni che ieri sono stati confiscati, con la sentenza del Gup Matassa.

Con sentenza definitiva del 2006 Maniscalco era stato condannato per mafia e poi con una sentenza della Corte di Appello gli era stata applicata la misura della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno, cosa che gli impediva di intestarsi beni. L’uomo, ritenuto vicinissimo a Totò Riina, aveva allora iniziato a costruirsi la sua rete di prestanome, alternando soci e titolari, aprendo e chiudendo continuamente attività.