ROMA (ITALPRESS) – “Il dibattito che si è aperto sullo smart working assomiglia a una commedia degli equivoci. L’equivoco primario è proprio il pomo della discordia, l’oggetto stesso della discussione: una modalità di lavoro che viene chiamata smart working, ma che senza adeguati cambiamenti organizzativi e digitali dei processi produttivi, non è smart working”. Il ministro per la Semplificazione e la Pubblica Amministrazione Renato Brunetta torna a parlare dello smart working nel pubblico impiego e lo fa con una “Lettera ai difensori (ipocriti) dello smart working nella Pa” pubblicata dal “Foglio”. “Poichè in gioco c’è la vita quotidiana di milioni di persone, occorre fare chiarezza e riportare il dibattito su binari di realtà, lontano dalle percezioni soggettive, quando non interessate, e dalle opzioni culturali e ideologiche di ciascun osservatore, e soprattutto fuori dalla polarizzazione che aveva già visto contrapporsi tecno-entusiasti e tecno-pessimisti sulla Quarta Rivoluzione industriale. Lo dobbiamo non solo ai 3,2 milioni di dipendenti pubblici, i ‘volti della Repubblicà cui si deve la resistenza dell’Italia al Covid-19, ma anche ai cittadini, alle famiglie e alle imprese che meritano servizi di qualità, adeguati a un paese che sta crescendo a ritmi da boom economico e che ha bisogno di una Pubblica amministrazione che sia davvero l’architrave della ripresa. All’altezza della sfida. Bisogna, dunque, partire da un dato di fatto, che pare ignorato dai fautori dello status quo emergenziale: quello che è stato sperimentato in massa nella Pubblica amministrazione italiana, a causa della pandemia che dal 2020 ha sconvolto il mondo, non è lo smart working inteso come filosofia manageriale e modello di organizzazione strutturato ispirato a flessibilità, autonomia e responsabilità” aggiunge Brunetta. “Piuttosto è una forma di lavoro domiciliare forzato, realizzata nel giro di pochi giorni trasferendo meccanicamente all’esterno delle amministrazioni alcune delle attività che prima venivano svolte in ufficio, e solo quelle che, nell’emergenza, potevano immediatamente essere delocalizzate in funzione dei processi e delle tecnologie esistenti, senza una scelta organizzativa e strategica di fondo”.
“Nonostante gli innegabili meriti ‘sanitarì di questa soluzione, che ha permesso per quanto possibile la continuità dei servizi e ha tutelato la sicurezza dei lavoratori, ciò che è stato sperimentato non può certo definirsi nè smart working nell’accezione manageriale classica, nè lavoro agile secondo l’inquadramento normativo pre-pandemia come definito dalla legge 81/2017” spiega Brunetta. “Lo dimostra il fatto che si è proceduto a colpi di deroghe, innanzitutto con il venir meno della necessità dell’accordo individuale, e poi con eccezioni agli obblighi informativi e all’alternanza tra prestazione in presenza e prestazione da remoto. Deroghe che però sono state accompagnate dalla trasformazione per legge del lavoro agile da una delle possibili modalità di lavoro pubblico da incentivare nella Pa a ‘modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativà e poi a ‘una delle modalità ordinariè. “Non esiste ancora una piattaforma sicura dedicata allo smart working nella Pubblica amministrazione, l’interoperabilità delle banche dati è un processo in fieri, spesso i dipendenti sono stati costretti a lavorare ricorrendo ai propri computer e ai propri device” afferma Brunetta.
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