Migranti. La sfida dell’incontro. Questo il titolo di una significativa e molto affollata mostra presente al Meeting Rimini per l’Amicizia tra i popoli in corso in questi giorni.

Una mostra molto ampia e completa che non ha timore di affrontare un problema, definito dagli stessi organizzatori del Meeting Rimini “molto complesso, che divide l’opinione pubblica e le cancellerie internazionali”. L’intento illustrato con chiarezza fin dall’inizio è piuttosto quello “di proporre un percorso di immedesimazione nelle vicende umane di coloro che lasciano la loro terra in cerca di un futuro migliore, e insieme di capire come l’incontro con queste persone interpella ciascuno di noi, la nostra umanità”. Una mostra che approfondisce il tema del Meeting di quest’anno “Tu sei un bene per me”, prendendo di petto, una questione con cui l’Europa intera deve fare i conti, ma che vede noi italiani in prima fila nell’accoglienza di miglia di migranti che ogni giorno continuano a sbarcare sulle nostre coste.

La mostra è il frutto di molti mesi di lavoro di un nutrito gruppo di studenti di varie università italiane, coordinati da Giorgio Paolucci, già vice direttore di Avvenire e scrittore, e si avvale della collaborazione di autorevoli docenti universitari quali il demografo Giancarlo Blanciardo e lo storico Wael Farouq.

Abbiamo incontrato Giorgi Paolucci:

Quale è la soluzione che la mostra intende proporre?

“Non abbiamo ricette da proporre perché siamo di fronte ad un problema gigantesco di fronte al quale la politica va in ordine sparso, l’opinione pubblica si divide e gli esperti arrancano”.

Allora è una raccolta delle tante lodevoli iniziative di accoglienza presenti in Italia?

“Non soltanto. Una cosa abbiamo voluto proporre: uno sguardo curioso e appassionato alla sorte di milioni di persone che, come noi, cercano di compiere il loro destino, di realizzare il sogno della felicità.”

E come avete fatto?

“Abbiamo provato a immedesimarci nella loro umanità: chi sono, perché partono, cosa cercano? Tutti hanno alle spalle un viaggio che li ha portati qui dalle loro terre, tutti hanno fatto i conti con un’umanità, una lingua, una cultura, una società più o meno distanti da quelle di origine. È stato un incontro: a volte traumatico, a volte fecondo, sempre impegnativo.”

Quindi una storia, anzi tante storie, di integrazione? Ma senza uno sbocco “politico” dell’intera vicenda?

“Rispondo con quanto affermato da mons. Nunzio Galantino, Segretario generale della CEI, nella guida alla mostra che abbiamo curato: <<L’integrazione è un gesto ‘politico’ chiaro e distinto che, in questi momenti di scelta legislativa e di ‘precarietà’ della persona immigrata, può provenire come scelta operativa dalle nostre comunità>>”.

Ed in effetti la mostra presente al Meeting Rimini non ha timore ad affrontare tutti gli aspetti, anche quelli più controversi, che la sfida dei migranti pone a tutto il Paese. Tra i tanti cartelli e le citazione ve n’è uno che colpisce particolarmente i visitatori che dice: «Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Non amano l’acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si costruiscono baracche di legno e alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci. Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti……. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro. I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel nostro Paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali. Vi invito a controllare i documenti di provenienza e a rimpatriare i più. La nostra sicurezza deve essere la prima preoccupazione». I visitatori si interrogano interdetti nel tentativo di comprendere in quale regione o città d’Italia sia comparso questo avviso. Si rasserenano quando leggono in basso: Da una relazione dell’Ispettorato per l’Immigrazione del Congresso americano sugli immigrati italiani negli Stati Uniti, ottobre 1912.

Ma la domanda sul senso e sul motivo dell’accoglienza rimane. Il percorso, non a caso scandito da “muri” e non da sezioni, parla dell’immigrazione sia dal punto di vista storico che demografico, della mancanza di strategia dell’U.E e delle parole e i gesti di papa Francesco, degli aspetti della convivenza e della delinquenza, di quelli del lavoro e della previdenza, della possibile soluzione costituita dai corridoi umanitari; è, inoltre, scandito da alcuni video e da tante positive e fortunate storie di accoglienza raccolte dalla Lombardia alla Sicilia.

Quattro quelle siciliane: quella di Pietro Bartolo, ‘U dutturi’ di Lampedusa, che da anni accoglie sulla banchina del porto miglia di persone che hanno lasciato un segno indelebile nella sua vita; quella di Mustafà un sedicenne proveniente dalla Somalia inviato in Europa dai genitori per contribuire al sostentamento della famiglia lasciata laggiù; sbarcato a Lampedusa da un barcone è stato condotto nella comunità alloggio don Calabria di Termini Imerese dove ha iniziato una nuova vita, iniziando proprio dallo studio e dall’amicizia; quella di Bekir, tunisino di 47 anni che nella Missione Speranza e Carità di Biagio Conte a Palermo ha potuto superare un difficile momento legato a situazioni giudiziarie da cui è uscito fuori; ora si è sposato e ha due figli e a lui, musulmano praticante, è stato chiesto di dipingere la Porta Santa che si trova nella Missione di via Decollati; quella di due amiche marocchine: Nadia che da tempo risiede a Catania che ha un figlio, Becher, di 11 anni nato qui da noi e di Mariem, che ha due figli, Yosra e Yousef, che vanno in terza media e seconda elementare. Grazie all’associazione ‘Cappuccini’ che opera in un quartiere degradato del centro storico sono riuscite a sottrarre i figli al ricatto della delinquenza della zona e ad offrire loro un futuro. Sulla stessa lunghezza d’onda si pongono quattro interventi presentati in estrema sintesi lungo il percorso della mostra, firmati da Fausto Bertinotti, Carmine Di Martino, Wael Farouq e Silvano Tomasi.

“Non bisogna mai dimenticare che i migranti, prima di essere numeri, son persone, sono volti, sono storie”. Queste parole pronunciate il 16 aprile 2016 da papa Francesco in occasione dell’incontro con i profughi nell’isola greca di Lesbo, sono la bussola che ha guidato il lavoro dei tanti che hanno curato la mostra. Ma sono anche il monito più forte che i tantissimi visitatori si portano tornando a casa.