A cura di Alida Polizzi, Soraya Lo Piccolo, Alessandra Saglimbene, Carlotta Tamigio

L’Educandato Statale Maria Adelaide offre a tutte le studentesse e gli studenti della scuola, ma anche alle/ai docenti e a tutto il personale, un servizio di supporto psicologico individuale e alle classi. Abbiamo quindi deciso di incontrare lo psicologo della nostra scuola, il dottor Salvatore Monti, per affrontare, dalla sua prospettiva di esperto e operatore sul campo, il tema della condizione giovanile e delle dipendenze. Veniamo ricevute nel suo studio scolastico, sobrio e accogliente. La nostra intervista prende l’avvio da una sua domanda con cui si entra immediatamente nel merito del percorso che stiamo realizzando. Ci viene chiesto cosa ne pensiamo del progetto “Enterprise” e della realizzazione di un Magazine sul tema delle dipendenze.

Alessandra S.: Ci stiamo confrontando con una tematica molto delicata, soprattutto perché legata ad un periodo della nostra vita in cui siamo facilmente influenzabili dalle persone che ci circondano. Stiamo cercando di affrontare il tema della dipendenza a 360° attraverso la realizzazione di articoli e interviste, e tutte/i noi che lavoriamo al progetto stiamo imparando a “a saper dire no”, perché dobbiamo salvaguardarci da una sorta di “diavoli tentatori” che possono innescare problemi di dipendenza.

Monti: Mi sembra quindi che vi stiate concentrando sul tema delle dipendenze in tutte le sue declinazioni. Andiamo al cuore della questione.

Alida P.: E qual è, secondo lei, il cuore?

Monti: Quella di ritrovarci nella vita, soprattutto in questa fase delicatissima che si chiama adolescenza, naturalmente esposti ad esperienze ed esplorazioni che ci conducono attraverso linee di confine tra ciò che è lecito e illecito, fra ciò che è sano e malsano. Non è semplice valutare, riconoscere, scegliere, perché tutti questi passaggi richiedono delle competenze, “soft skill” relazionali ed emotive che richiedono a loro volta informazioni, conoscenza. L’informazione è fondamentale, ma è spesso sottovalutata, anche perché subisce il fenomeno della disinformazione. Tutto ciò confluisce in ciò che abbiamo chiamato “adolescenza”, la fase della vita in cui, rispetto alle altre, si accelera lo sviluppo psicofisico. Subiamo delle modifiche molto veloci, caratterizzate da situazioni di ambivalenza; siamo presi dalla necessità di scegliere, ma siamo anche bisognosi e dipendenti, per l’appunto, da importanti punti di riferimento. La gestione delle dinamiche sociali e gruppali, alla vostra età, è estremamente delicata, perciò le scelte sono difficili. La scelta di rifiutare è spesso affrontata assieme al timore dell’emarginazione e dell’isolamento. Ciò comporta forza e responsabilità nella gestione di situazioni ed emozioni, e non è mai facile. 

Carlotta T.: Può approfondire il suo ruolo di psicologo nella nostra scuola?

Monti: Lo sportello d’ascolto nasce nel 2020, quando stavamo attraversando la pandemia del Covid 19. Si è trattato di un momento molto delicato, di smarrimento, di angoscia, e le scuole italiane sono state attraversate da queste dinamiche che abbiamo subito. Allora il Ministero dell’Istruzione ha avviato un progetto finalizzato a istituire in quasi tutte le scuole, 8000 circa, sportelli di aiuto psicologico. Purtroppo, queste risorse non sono state mantenute e oggi molte scuole li hanno disattivati. Il Maria Adelaide, invece, garantisce questo servizio dal primo all’ultimo giorno di scuola, fornendo consulenza psicologica a tutta la comunità scolastica. Ed è molto importante, perché lo sportello psicologico rappresenta un dispositivo di sostegno, di regolazione emotiva e di consulenza, ma è anche, e soprattutto, uno strumento che consente di praticare la prevenzione, fondamentale ancor prima della cura e della diagnosi. Tale strumento può rappresentare un privilegiato osservatorio del mondo dei giovani, fetta di popolazione che, come noto, è caratterizzata dalle manifestazioni di svariate forme di disagio che spesso sconfinano nell’ambito della clinica psicologica. Attraverso lo sportello d’ascolto si cerca di intercettare quel disagio, quel doloroso sentire, spesso silente e mimetizzato, che aleggia in vari contesti sociali e familiari, accogliendo, ascoltando, comprendendo, condividendo e provando ad elaborarlo e trasformarlo.

Alessandra S.: Quale testimonianza ci può dare del suo contatto coi giovani, specialmente per quanto riguarda il tema delle dipendenze?

Monti: Ancora oggi, il tema delle dipendenze rappresenta una di quelle forme “privilegiate” attraverso cui si manifesta il disagio giovanile. Pensiamo all’alcolismo.

Alida P.: Prima, infatti, l’alcool veniva bevuto durante i pasti a differenza di ora che viene bevuto durante le feste, gli incontri nei locali. I momenti di socializzazione sono frequentemente legati al bere, in generale, a stomaco vuoto.

Monti: Esatto. Nei Paesi del Mediterraneo, storicamente e culturalmente, l’alcool viene associato alla convivialità a tavola, come elemento che favorisce la relazione con gli altri. Cosa diversa invece dai Paesi anglosassoni, dove invece l’uso dell’alcool assume altre valenze, legate alla trasgressione e alla ricerca dello sballo, individuale e di gruppo. Tenete conto che, come ci dice l’OMS, oggi l’abuso di alcool è la terza causa al mondo di mortalità, preceduta da problemi cardiovascolari e malattie tumorali, in tutte le sue declinazioni, oltre che causa, ad esempio, di incidenti stradali. La scuola sicuramente ha un ruolo primario nella prevenzione. La scuola è un luogo dove si accompagnano i giovani a diventare uomini e donne, a sviluppare delle competenze, competenze relazionali e soprattutto emotive, la capacità di attraversare e sostenere i disagi, la competenza a soffrire.

Alessandra S.: In che modo noi giovani possiamo evitare di associarci a particolari atteggiamenti che magari vengono anche attuati da nostri amici?

Monti: Il nostro corpo per vivere ha bisogno di mangiare e bere, la nostra mente invece di un alimento primario: le relazioni. Senza relazioni, noi umani rischiamo di impoverirci e persino ammalarci. Sarebbe auspicabile quindi la ricerca, “l’alimentarsi” di relazioni sane. Anche questa è una competenza. Andrebbe quindi sviluppato questo “filtro”, inteso come capacità di lasciare fuori ciò che consideriamo nocivo, tossico, facendo entrare ciò che consideriamo sano. Come si fa a filtrare? Sperimentando la capacità, la forza di dirsi e dire “no”. Non è così facile, perché tra il sì e il no vi sono varie sfumature intermedie, come “non lo so”, “non capisco”, “non conosco”. In questo spazio si inserisce l’importanza di figure autorevoli, di punti cardinali che ci aiutano nella scelta di una persona rispetto a un’altra.

Carlotta T.: Vi sono dipendenze, come i disturbi alimentari, che noi stiamo trattando, che a parer nostro si concentrano su fattori di carattere psicologico molto profondi, intimi, più marcati comunque rispetto ad altre dipendenze. Cosa potrebbe dirci in merito?

Monti: In noi esseri umani, il rapporto col cibo è un altro registro sensibilissimo al disagio psichico, al malessere. Ed è uno di quei registri che facilmente subisce dei condizionamenti, da quelli più banali fino a quelli più significativi, fino a quando il disagio si manifesta in quello che in clinica si chiama Disturbo dell’alimentazione. I Disturbi dell’alimentazione hanno una composizione complessa in cui intervengono vari fattori: personali, familiari, ambientali, sociali, culturali. Nel nostro contesto socio-culturale è un tipo di disagio molto diffuso. Lo sportello psicologico non può fare diagnosi, ma quando viene intercettato questo tipo di sintomatologia avvia un percorso di condivisione con la persona portatrice di questo dolore, e se necessario anche un confronto con le figure genitoriali e dunque un invio presso centri specialistici.

Carlotta T: Lei ha notato delle differenze tra la generazione odierna e quella passata per quanto riguarda il fenomeno delle dipendenze?

Monti: La risposta è sì. Dietro questa parvenza fenomenologica, si celano delle dinamiche e significati diversi. Tra oggi e 20 anni fa, ciò che si osserva è una maggiore diffusione del sentimento della solitudine, dell’isolamento. Riferendomi a ciò che ho definito precedentemente come “cibo della mente”, vediamo come molte relazioni sono transitate da una dimensione reale a quella digitale. Una transazione totale all’interno della dimensione digitale può esporre l’individuo alla privazione di questo “sano cibo relazionale”, che è assimilato attraverso dinamiche relazionali autentiche che ci coinvolgono nella nostra interezza.

Alessadra S.: In che modo i ragazzi possono uscire da questo “tunnel” dell’isolamento, e soprattutto è facile rientrarvi?

Monti: È assolutamente possibile la “guarigione”, ma ciò richiede fatica, impegno, senso di responsabilità, coraggio, capacità di gestione. Chiedere aiuto non è mai facile, richiede forza e coraggio come, ad esempio, varcare la soglia dello studio dello sportello scolastico o rivolgere una richiesta d’aiuto all’insegnante. L’esperienza mi dice che se proviamo ad affrontare e a risolvere un problema, un disagio, ci incanaliamo in una situazione favorevole. Se ci ritroviamo bloccati o neghiamo il nostro malanno, imbocchiamo una direzione molto rischiosa. I disturbi, il disagio possono essere affrontati: il primo passo è trovare la forza di chiedere aiuto, di parlarne per affrontarli insieme. Desidero concludere con una frase di James Baldwin: «Non tutto ciò che si affronta può essere cambiato; ma niente può essere cambiato finché non viene affrontato».

Luogo: Educandato Statale Maria Adelaide

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