Nel trentatreesimo anniversario della morte dell’ispettore capo Giovanni Lizzio, il Coordinamento Nazionale Docenti della disciplina dei Diritti Umani intende rinnovarne la memoria e il significato civile, in un momento storico in cui la lotta alla criminalità organizzata, pur trasformata nelle forme, continua ad attraversare profondamente il tessuto sociale ed economico del nostro Paese, e in particolare della provincia di Catania.

Lizzio fu molto più di un investigatore esperto: era l’anima della squadra mobile etnea, la memoria vivente della criminalità organizzata, colui che sapeva leggere i segnali invisibili che spesso sfuggono anche agli occhi più attenti. A soli 47 anni, fu ucciso mentre era fermo al semaforo, in una città che conosceva a fondo e che aveva scelto di servire fino in fondo, pur consapevole dei pericoli. Non fu un omicidio casuale, né soltanto la vendetta per l’operazione che pochi giorni prima aveva portato all’arresto di quattordici affiliati del clan Cappello. Fu un messaggio. Fu l’estensione a Catania della strategia stragista già in corso a Palermo. E fu, soprattutto, l’eliminazione di un simbolo scomodo: un uomo dello Stato che sapeva troppo e che non aveva mai chinato il capo.


Oggi, ricordarlo non può limitarsi a un gesto formale o commemorativo. Deve, piuttosto, tradursi in azione educativa. I dati più recenti, pubblicati nel 2024, raccontano una realtà ancora inquieta: Catania si conferma tra le prime province italiane per indice di criminalità, con un’incidenza di oltre 3.800 denunce ogni 100.000 abitanti, e picchi preoccupanti nei furti d’auto, nelle estorsioni e nelle rapine. Se da un lato si registra a livello nazionale un calo degli omicidi, dall’altro è evidente l’aumento dei reati che coinvolgono minori, segno di un disagio profondo e diffuso che tocca le periferie urbane e le nuove generazioni. Il fenomeno estorsivo, in particolare, rimane uno dei principali strumenti di controllo mafioso sull’economia catanese. Ed è proprio su questo fronte che Lizzio aveva concentrato, negli ultimi anni della sua vita, la propria instancabile attività investigativa, in un contesto in cui – allora come oggi – parlare, denunciare, resistere richiede coraggio e alleanze forti.


È in questo scenario che il CNDDU riafferma la necessità di rafforzare in modo concreto e stabile l’educazione alla legalità nelle scuole italiane, non come accessorio, ma come pilastro della formazione dei cittadini di domani. Parlare di mafia in aula, studiare la storia dei servitori dello Stato come Giovanni Lizzio, ascoltare chi ha rotto il silenzio o scelto di collaborare, non è un esercizio astratto: è un atto di responsabilità e di prevenzione. La scuola ha il dovere di offrire strumenti per decifrare la realtà e contrastare le logiche della sopraffazione. Ma per farlo ha bisogno di tempo, spazi, professionalità dedicate. Ecco perché il CNDDU rinnova la propria proposta di inserire un’ora settimanale obbligatoria di Educazione alla legalità nella scuola secondaria di primo grado, affidata ai docenti della classe A046, e di utilizzare le ore di potenziamento nella scuola superiore per costruire percorsi duraturi e coerenti.


Il valore di questa proposta non risiede solo nel contenuto, ma nell’approccio: la legalità non può essere insegnata con formule astratte o moralismi, ma deve essere vissuta, raccontata, analizzata nella sua complessità. La figura di Giovanni Lizzio ci invita a farlo. Ci ricorda che il coraggio non si misura nel clamore di un gesto, ma nella coerenza quotidiana con cui si esercita il proprio ruolo, qualunque esso sia. E ci ricorda, soprattutto, che la cultura è l’unico antidoto profondo alla violenza organizzata.

Nel giorno in cui lo ricordiamo, il nostro pensiero va anche alle sue figlie, alla sua famiglia, a tutti quei cittadini che, come lui, hanno scelto la parte difficile della storia. A loro dobbiamo non solo il rispetto della memoria, ma l’impegno concreto di trasformarla in progetto educativo, in politica scolastica, in cultura viva.

prof. Romano Pesavento

presidente CNDDU

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