Per millenni uomini saggi hanno cercato di indicarci la strada giusta, ma i loro appelli sono, per lo più, svaniti nel vuoto. Non vi è, infatti, peggior sordo di chi non vuol sentire. Eppure ogni generazione ha fatto rivivere il nostro umanesimo culturale, ha consolidato il nostro rapporto con il mondo esterno e ci ha visto crescere, nel bene e nel male, come il prodotto finito di una natura che ha raggiunto la distanza focale rispetto al proprio sistema ottico.  È una storia, nel suo insieme, che divide l’esistenza dell’uomo in tre momenti distinti: quello della crescita, quello della maturità e quello terminale. E in tutte queste tre diverse posizioni che si allestisce e si compie l’antropofagismo degli esseri viventi e, per ciò che ci riguarda nello specifico, di quello umano. Esso, per lo più, si presenta nel modo più inoffensivo. È come un uomo che coltiva nel suo piccolo orticello la piantina che gli darà, nella giusta stagione, il frutto desiderato e che mangerà, per nutrirsi, e i cui resti scarterà, alla fine, dopo aver utilizzato le risorse vitali. Nulla in quest’andamento “naturale” può farci intravedere qualcosa di deviato.  Eppure ritroviamo persino, nella gestualità di un comportamento irreprensibile, i prodromi di una violenza esercitata nei confronti degli altri. Basta, ovviamente, intendere il senso che noi diamo al concetto di “altro” se si pensa che il male che arrechiamo possa ricadere anche su di noi. Penso, ad esempio, al rimorso. Alla fine, dobbiamo convenire che si arriva inevitabilmente a un rapporto più inquietante: Si assume cibo e si è saziati nella grande scodella comune. Non ha importanza se si tratta in maniera confusa di piante o d’animali di specie affini o distanti tra loro. Questa nostra bramosia votata alla distruzione non è altro che un modo per mangiare ed essere mangiati comunque. Persino quando arriva il momento dell’evacuazione, come accade dopo l’ingestione e la digestione degli alimenti, ciò che per noi è diventato superfluo e inutile si trasforma per altri in sostanze nutritive e una parte di noi, in questa condizione estrema, continua a essere adoperato e sfruttato. Se a questo punto dovessimo riscrivere la storia dell’umanità partendo da tali presupposti avremmo, di certo, un modo ben diverso di considerare la vita. I nostri alterni percorsi, siano essi lastricati d’opere di bene che dai veleni, nei quali ci immergiamo, denotano un disagio non solo appariscente. Capiremmo anche il perché consideriamo i rapporti generazionali con tanto acceso contrasto e li sottoponiamo, di frequente, a un giudizio critico eccessivo o a traumatiche e cruente opposizioni.  Non sono tanto i giovani o i vecchi, infatti, a stabilire i confini della nostra esistenza e, nel suo interno, a spiegare il buono e il cattivo che essi producono, ma il modo come sono interpretati gli atteggiamenti degli uni, rispetto agli altri, e al ruolo che a loro attribuiamo.  E se una generazione spinge la precedente al “suicidio” nelle forme più raffinate come quelle dell’emarginazione, dello scarso sostegno sociale, previdenziale e d’assistenza e via dicendo, dovremmo concludere che anche questo è modo d’essere cannibali. Con ciò intendo asserire che così facendo, sia pure inconsapevolmente, noi neghiamo il diritto alla vita dei nostri simili e al rispetto che ne deriva e al fatto che essa deve prescindere dall’età e dalle condizioni fisiche in cui gli esseri umani si trovano in un dato momento e in una determinata circostanza. By Riccardo Alfonso dal libro “Il cannibale”

Luogo: via delle cave di Pietralata, 14

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