In Poste Italiane, un’azienda pubblica che giustamente riceve fondi pubblici per un servizio essenziale, abbiamo assistito per anni a prassi illegali diffuse da nord a sud. Queste pratiche hanno danneggiato non solo i lavoratori, ma anche i clienti. Sebbene le recenti inchieste televisive abbiano sorpreso il pubblico, la realtà era già ben nota a tutti i livelli sindacali all’interno dell’azienda.
Di fatto, il sindacato ha operato come parte integrante di un meccanismo ben oliato, agendo da “filtro” verso l’esterno e garantendo che le problematiche interne, incluse le illegalità, fossero gestite in modo riservato, “lavando i panni sporchi in famiglia”.
Noi precari comprendiamo le difficili condizioni affrontate da quei sindacalisti che hanno preferito non agire, temendo ritorsioni personali e professionali. Pur apprezzando le crescenti attenzioni della UIL Poste verso lo sfruttamento del precariato, riteniamo inopportuna l’attivazione di un servizio di denuncia anonima per abusi e irregolarità aziendali.
La situazione attuale è il risultato di un sistema in cui l’istituzione sindacale, nella sua interezza e ormai autoreferenziale, ha abdicato al proprio ruolo di tutela. Ha demolito la dignità della cultura sindacale in una nazione che ha dato i natali allo Statuto dei Lavoratori, un vero faro di civiltà e diritti. Questa gravità è tale che, per denunciare le problematiche aziendali, i lavoratori sono costretti a parlare in televisione e in forma anonima. È un segno tangibile di quanto sia profondo il baratro in cui è precipitata la tutela dei loro diritti.
Ma il sindacato non può e non deve alimentare la cultura dell’anonimato. Piuttosto, dopo quanto emerso, anziché emulare i giornali raccogliendo e diffondendo denunce, dovrebbe infondere coraggio ai lavoratori affinché si facciano avanti in prima persona. Del resto, è esattamente ciò che noi precari abbiamo fatto in questi anni. L’anonimato serve solo ad alimentare un clima di paura, anziché la forza e la consapevolezza dei propri diritti e ragioni.
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