Pochissimi conoscono Vincenzo D’Aquila, un palermitano del 1892 emigrato con la sua famiglia in America. Ma che dal Nuovo Continente tornò al suo Paese nel 1915 per arruolarsi volontario nell’esercito italiano e combattere la Grande Guerra.
La sua è una storia davvero singolare e potremo conoscerla grazie a uno studioso, Claudio Staiti, dottorando di ricerca in Storia Contemporanea all’Università di Messina, che ha tradotto il libro di Vincenzo D’aquila “Bodyguard Unseen. A true autobiography”.
Quel volume autobiografico, che raccontava le sue vicissitudini durante la grande Guerra, Vincenzo D’aquila l’aveva dato alle stampe in America nel 1931, era stato accolto con favore, ma mai era stato tradotto in Italia. E ciò perché di certo non era un libro gradito dal regime fascista, né poteva mai esserlo per il suo contenuto pacifista.
Adesso l’autobiografia di Vincenzo D’Aquila esce in Italia a cura di Claudio Staiti e con la prefazione di Emilio Franzina col titolo “Io, pacifista in trincea” e il sottotitolo “Un italoamericano nella Grande Guerra” per i tipi di Donzelli.
Come si è detto, la storia di Vincenzo D’aquila è molto particolare e merita di essere conosciuta.
Ai primi scontri militari a cui assiste, D’aquila, che pure si era arruolato volontario, matura la convinzione di quanto inutile, nefanda e contraria ai principi dell’umanità sia la guerra. Convinzione che, man mano passano i giorni e i mesi in trincea, diventa sempre più salda.
Finché rimarrà al fronte D’Aquila avrà un solo obiettivo: imbracciare il fucile senza però mai sparare a nessuno, tantomeno al “nemico”, non potendosi considerare tale chi indossa una divisa diversa dalla propria. La guerra è un crimine contro l’umanità e viola i precetti evangelici: così la pensa Vincenzo D’aquila.
Purtroppo però D’Aquila, che per effetto della guerra si avvicina sempre più al credo religioso, spogliatosi della divisa militare non indosserà il saio francescano, ma la camicia di forza del manicomio. Dapprima quello di Udine, poi quello di Siena. Non vi rimarrà a lungo nel chiuso delle celle per i matti, né molto si sa della diagnosi che gli fu formulata e di quanto corrispondesse al vero.
Si sa solo che, scontata la sua “disubbidienza” nei manicomi, D’Aquila tornerà in America e scriverà il suo libro di memorie. Che è una testimonianza del dramma della guerra e una denuncia dei mali che gli sono congeniti e che arreca. Nel libro sono descritti a chiare e crude lettere il massacro dei commilitoni mandati al fronte “come topolini in una stanza affollata di gatti affamati” e le disparità tra i comandanti degli eserciti e i loro sottoposti.
Né mancano episodi toccanti che colpiscono dritti al cuore: ma l’intento di D’Aquila, nemico dichiarato della guerra (e di ogni guerra), non era quello di commuovere i lettori, ma di renderli consapevoli della follia disumana dei conflitti bellici.
Vincenzo D’Aquila – di cui oggi si continua a conoscere poco e che meriterebbe, per la sua esistenza esemplare, ben altra notorietà – da figlio di umili bottai, si farà strada in America affermandosi nel settore dell’editoria. Morirà nel 1975, a 82 anni, vittima di un incidente domestico.
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