Anche quest’anno la FISM, la Federazione che raccoglie le scuole materne (primarie e dell’infanzia) ha proposto prima della ripresa autunnale dell’attività didattica un corso di formazione/aggiornamento regionale che ogni anno “E’ un appuntamento – spiega Nicola Iemmola, il presidente regionale – che consente a tanti insegnati di iniziare l’avvio della scuola con un aggiornamento sulle più importanti novità intercorse e soprattutto con quelle con cui devono confrontarsi nel nuovo anno scolastico. Quest’anno abbiamo voluto aggiungere alle tradizionali comunicazioni d’aula e ai pomeridiani laboratori, due comunicazioni di due vescovi siciliani, mons. Domenico Mogavero e mons. Michele Pennisi per affrontare la questione dell’insegnamento della religione cattolica nella età prescolare, vista l’importanza che essa assume anche in questa fascia d’età”.

Abbiamo posto a Mons. Mogavero alcune domande proprio su questo tema.

Mons. Mogavero, nel corso del convegno della FISM si è fatto riferimento ad una recente indagine condotta dal prof. Franco Garelli sulla esperienza religiosa dei bambini. Già il titolo è molto significativo: “Piccoli atei crescono. Davvero una generazione senza Dio?” Il dato che emerge è ciò che Garelli definisce una secolarizzazione “dolce”, che procede lentamente. In tanti giovani intervistati che si riconoscono “increduli” il sentimento religioso si esprime per lo più nella propria interiorità personale, passando da una dimensione verticale (lo sguardo alla trascendenza) ad una orizzontale (la ricerca di un’armonia personale). Emblematica la risposta di una ragazza: Dice una ragazza: “Cerchiamo di trovare le risposte dentro di noi piuttosto che cercarle nella fede”. Alla luce di tutto ciò qual è il valore e la funzione dell’educazione cattolica nella scuola primaria e dell’infanzia?
“Va detto per cominciare che il fondamento di tale insegnamento risiede nell’art. 9 secondo comma dell’Accordo di revisione del Concordato lateranense del 1984 dove si riconosce sia “il valore della cultura religiosa” sia “i principi del cattolicesimo” che “fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano”. Da qui nasce l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, con l’aggiunta che “di tale diritto possono o no avvalersi i genitori”. Tutto ciò, pur tenendo conto degli studi di Garelli, sempre molto precisi, e di una realtà che è ben presente a tutti noi pastori, rimane un punto fermo da cui partire”

E allora che cosa occorre?
“C’è da tener presente anche e soprattutto quanto dichiarato nel corso degli anni nei più importanti documenti della Conferenza Episcopale italiana, volti a fare di questo insegnamento un servizio ai giovani per aiutarli a rispondere meglio alle più importanti domande che accompagnano la loro crescita”.

Per esempio?
“Cito la nota pastorale della Conferenza Episcopale italiana del 1994, dal titolo “Insegnare religione cattolica oggi” in cui si osserva che tale insegnamento “è un servizio educativo a favore delle nuove generazioni” che “intende rispondere alle domande della persona e offrire la possibilità di conoscere quei valori che sono essenziali per la sua formazione globale”. Sulla medesima linea si colloca quella contenente gli orientamenti pastorali per il decennio 2010-2020 “Educare alla vita buona del Vangelo”, dove si parla del “qualificato contributo” che può offrire l’insegnante di religione attraverso la promozione “di una cultura umanistica e sapienziale, abilitando gli studenti ad affrontare le sfide del nostro tempo”.

E dunque? Lei ha una profonda esperienza nel campo dell’accoglienza e dell’impegno interculturale. Tutto ciò come gioca in quanto abbiamo finora detto?
“L’impegno da assumere è quello di proporre e di mantenere nel percorso educativo che abbiamo descritto un volto di Chiesa accogliente e pronta al servizio, in grado di porre le basi per una pacifica convivenza, che si realizzi attraverso modelli di vita vissuta, prima ancora che attraverso teorizzazioni di esperti. Tutto ciò passa attraverso alcuni punti fermi”.

Quali?
“Innanzitutto presentare la Chiesa come luogo nel quale si sperimenta il grande “sì” di Dio all’uomo in Gesù Cristo, superando una visione del cristianesimo caratterizzata da divieti e dinieghi”.

E poi?
“Offrire una testimonianza intesa come forma della vita cristiana nella quale “convergono vita spirituale, missione pastorale e dimensione culturale”, come spiega la nota pastorale dell’Episcopato italiano dopo il 4° Convegno Ecclesiale Nazionale di Verona dal titolo: “Rigenerati per una speranza viva”. Inoltre, strettamente connesso col tema della testimonianza, c’è il riferimento alla vita quotidiana, declinata nei cinque ambiti fondamentali dell’esistenza umana, individuati proprio a Verona: vita affettiva, lavoro e festa, fragilità, tradizione, cittadinanza”.

Lei prima parlava di prospettiva culturale. In che senso?
“Nel documento che ho appena citato si dice: “Ogni aspetto dell’esperienza cristiana possiede una forte valenza in ordine alla promozione di stili di pensiero e di vita, all’elaborazione di mentalità e di comportamenti, all’orientamento della fecondità dello spirito umano nella direzione del bello, del buono e del vero”. Questo ha immediate refluenze almeno su due aspetti molto concreti”.

Quali?
“Quelli della comunicazione e del linguaggio. Dobbiamo prendere atto che oggi il tradizionale strumento della parola non può considerarsi l’unico veicolo comunicativo e che pertanto bisogna muoversi con coscienza e competenza nel modo dell’immagine e in quello della comunicazione globale. Ma non basta. Collateralmente occorre entrare con ruolo attivo nei mondi delle arti figurative e della musica”.

Ma tutto ciò come si lega con quello da cui siamo partiti?
“Attraverso due aspetti fondanti e basilari: la questione antropologica, con tutti i profondi cambiamenti che la stanno attraversando, e la sfida educativa, con le grandi novità derivanti dal grande incontro di popoli e culture dei giorni nostri”.

Si, va bene. Ma cosa c’entra l’insegnamento di religione con questo ragionamento?
“Al docente di religione oggi è chiesto di essere persona capace di discernimento per poter attrezzare gli alunni al discernimento. Questo, infatti, è un atteggiamento necessario per fare quelle scelte che sono fondamentali per la piena realizzazione di sé, tenuto conto che la religione e la religiosità costituiscono dimensioni qualificanti la vita delle persone, diversamente da quanto avviene per quasi tutte le discipline scolastiche”.

E cosa dovrebbe fare, allora, l’insegnante di religione?
“Evitare improvvisazioni, interventi episodici, ricerca esagerata del consenso, assenza di scientificità. Non deve cercare gratificazione immediata, bensì offrire una proposta seria, dignitosa, organica e coerente, che offra un messaggio valoriale con cui tutti, a partire dagli alunni possono confrontarsi”.

E dal punto di vista metodologico?
“Offrirsi come servizio e testimonianza, proponendosi come uomini e donne del “sì” e non come gente “contro”. Il “sì” significa accettazione di sé e dell’altro; accettazione delle diversità, disponibilità e apertura al dialogo; libertà critica nel giudizio”

Tutto ciò come si traduce nella esperienza educativa che gli insegnanti di religione svolgono nella sua Diocesi, in cui da sempre l’incontro con culture diverse ha segnato profondamente l’insegnamento nelle scuole?
“Il tratto più significativo è il cammino comune che fanno gli alunni cattolici con gli alunni di religione musulmana le cui famiglie hanno chiesto di avvalersi dell’IRC. È un percorso di accoglienza, dialogo e rispetto della diversità di fede, senza alcuna prevaricazione che possa violare la libertà di coscienza”.

Questo assume particolare rilievo nelle scuole elementari e materne, dove ormai il numero degli studenti cristiani scende sotto il 50%.
“Dobbiamo cominciare a svincolarci dalle logiche quantistiche dei numeri. Oggi essi significano poco e hanno un valore assai relativo. Essere molti ma fragili nell’identità e insignificanti nella testimonianza della vita vale molto meno di minoranze coerenti e audaci nel mostrare il volto di una Chiesa che si mette a servizio delle persone”.

Certo l’insegnamento della religione nelle scuole non va confuso con il catechismo. Ma a chi spetta la trasmissione della fede alle generazione dei più piccoli, anche alla luce della indagine svolta dal prof. Garelli?
“Alle famiglie anzitutto e alle comunità ecclesiali, luogo di autentica vita secondo lo stile evangelico, nella comunione e nella entusiasmante esperienza di vita spirituale fecondata dalla grazia dei sacramenti”.

A suo avviso l’amministrazione dei Sacramenti nelle Parrocchie, soprattutto Prima Comunione e Cresima, è sufficiente per far conoscere la realtà della Chiesa ai giovani?
“Se si esce dai contesti e dai metodi scolastici e se si vive l’accesso ai sacramenti non come “un pensiero che la famiglia si toglie”, ma come un impegno di vita cristiana che nel conteso familiare trova la sua prima palestra di verifica”.

L’incontro con nuove esperienze religiose portate tra noi dai tanti immigrati può essere di aiuto anche ai cattolici nostrani?
“L’esperienza che gli immigrati cristiani ci portano ci mette di fronte a testimonianze semplici ma forti e convinti che rispecchiano uno stile di vita improntato seriamente al messaggio evangelico. Il cristianesimo stanco e abitudinario delle nostre terre è messo seriamente in discussione dalla genuinità dei modelli che gli immigrati ci propongono. Fa seriamente riflettere anche la loro apertura mentale, per nulla angosciata dall’incontro e dal confronto con altre fedi”.

Cosa può fare la scuola italiana in tal senso?
“Liberarsi da schemi stantii e poco attenti al percorso di crescita e di maturazione dei singoli alunni per dedicare maggiore attenzione e cura ad atteggiamenti e a comportamenti capaci di preparare alle problematiche legate alle rapide e rilevanti mutazioni che il nostro tempo conosce”.