Ci sono immagini che non si guardano soltanto: si sentono. Ti attraversano e cambiano per sempre il modo in cui osservi il mondo.

E’ questo il potere delle fotografie di Paolo Pellegrin, presentate lo scorso 10 giugno 2025 all’università di Palermo, nel trittico La pietà di Gaza – un’opera che ha trasformato l’Aula Magna della Facoltà di Giurisprudenza in un luogo di memoria, dolore e speranza.

Paolo Pellegrin (Foto Agenzia Maghweb)

L’evento si è svolto nell’ambito del progetto Crossing Borders, Popoli in Movimento, promosso dalla Fondazione Ghenie Chapels e curato da Alessandra Borghese. Dopo i saluti istituzionali di Paolo Inglese e Michelangelo Gruttadauria, il pubblico ha assistito a un intenso dialogo tra Pellegrin e il professore Diego Mantoan, seguito da una riflessione etica della ricercatrice Chiara Giubilaro. L’incontro si è concluso con la visita al trittico fotografico, ora visitabile negli spazi storici dell’università.

Tre fotografie, mille storie

Il trittico di Paolo Pellegrin (foto Agenzia Maghweb)

La pietà di Gaza è composta da tre fotografie in bianco e nero che raccontano la fuga disperata di alcuni feriti dalla Striscia di Gaza verso la città umanitaria di Abu Dhabi. Le immagini ritraggono i volti, le ferite e le speranze di chi è sopravvissuto a una realtà di guerra e devastazione.

Al centro del trittico, la piccola Maram Khassim, cinque anni, sopravvissuta per miracolo a un bombardamento. Avvolta in un sudario, creduta morta, è stata salvata dal lieve tocco della sua mano sulla pelle della madre, che l’ha fatta inserire nella lista dei feriti da evacuare. Oggi cammina e ha parzialmente recuperato la vista.

Nella foto, Maram è tra le braccia della madre, in una posa che evoca le Pietà rinascimentali. Pellegrin ha composto lo scatto con una luce di taglio rigorosa, formale: “Una pietà contemporanea”, la definisce. E’ un’immagine che sintetizza dolore, amore e speranza, rendendo l’invisibile finalmente visibile.

Sulla destra, Sham Musselem Abu Holi, otto anni, mutilata dall’esplosione di una bomba. La mano che compare nella foto, sfiorandole il volto, è un elemento misterioso, inspiegabile, ma poetico. “La mano che entra nell’inquadratura è invece il mistero della fotografia, dove non puoi controllare tutto – racconta Pellegrin – Stavo fotografando la bambina, nella stanza c’erano la nonna e alcune amichette. Non so di chi fosse quella mano. E’ l’insondabile, sembra quasi il suo arto fantasma”.

A sinistra, Mohammed Al Jafari, diciannove anni, ritratto in un momento di rieducazione motoria. Dopo aver perso un braccio in un attacco al mercato di Gaza, sta imparando a convivere con la mutilazione. Il suo sguardo è determinato, il corpo in tensione: un’immagine che racconta forza, ma anche assenza.

L’arte come memoria e resistenza

Il progetto Crossing Borders, che ha già visto le opere di Clair Fontaine e Yuri Ancarani, coinvolge sei artisti internazionali chiamati a confrontarsi con il tema delle migrazioni, fenomeno primordiale e attualissimo. Le opere sono state pensate per vivere negli spazi del Dipartimento di Giurisprudenza, trasformando l’ambiente accademico in un laboratorio di riflessione e dialogo.

“Le opere d’arte che abbiamo voluto installare faranno parte del vissuto quotidiano degli studenti – spiega Alessandra Borghese – diventando occasione privilegiata per osservare ciò che ci circonda con uno sguardo nuovo”. E ancora: “Abbiamo il privilegio, con queste fotografie, di vedere uno scorcio di umanità di Gaza. E’ un atto per onorare queste vite spezzate in una striscia di terra martoriata da troppi anni”.

Un testimone del nostro tempo

Paolo Pellegrin, nato a Roma nel 1964, è uno dei più influenti fotoreporter al mondo. Dopo aver studiato architettura, si è dedicato alla fotografia, diventando membro effettivo della celebre agenzia Magnum Photos nel 2005. Per dieci anni ha lavorato per Newsweek, documentando conflitti e crisi umanitarie in Medio Oriente, Africa, Asia e nei Balcani.

Nel corso della sua carriera ha ricevuto undici premi World Press Photo, il Robert Capa Gold Medal Award, la Leica Medal of Excellence e numerosi altri riconoscimenti internazionali. Le sue opere sono state esposte nei più importanti musei e gallerie del mondo, dal MAXXI di Roma al SFMOMA di San Francisco.

“Il tipo di fotografia di cui mi occupo – ha spiegato Pellegrin – ha un rapporto con la storia, con la documentazione, con l’idea di trasmettere memoria e cultura. Sono tre storie, certo, ma possono diventare simbolo di una condizione più ampia. Gaza è una ferita aperta, un luogo che viene massacrato quotidianamente.”

Educare lo sguardo, formare la coscienza

Il valore educativo del progetto è al centro dell’accordo triennale tra la Fondazione Ghenie Cgapels e l’Università di Palermo. Le opere, integrate nei percorsi accademici, diventano occasioni di approfondimento e studio. Il dipartimento di Scienze Umanistiche riconoscerà CFU agli studenti partecipanti, mentre la Clinica Legale Migrazioni e Diritti e il corso di laurea Migration, Rights, Integration rafforzano l’impegno dell’ateneo sul fronte dell’inclusione e dei diritti.

“Incontrare Pellegrin – ha osservato Borgese – è un’occasione preziosa per i giovani: possono confrontarsi con un testimone diretto della guerra, chiedergli cosa si prova a documentare tanta sofferenza, e cosa significa scegliere di non togliere lo sguardo.”

Una ferita che ci riguarda tutti

Nel silenzio raccolto dell’Aula Magna, davanti ai corpi feriti e agli occhi pieni di vita delle fotografie di Pellegrin, qualcosa si spezza e si ricompone dentro ciascuno spettatore. La pietà di Gaza non è solo un’opera fotografica: è un altare laico, un grido trattenuto, un esercizio di umanità.

Perché queste immagini non raccontano solo tre vite. Raccontano la nostra capacità di essere presenti, empatici, consapevoli. E ci ricordano che ogni fotografia può essere uno specchio, o una domanda.

E allora, davanti a questi volti che resistono alla dimenticanza, una sola cosa è possibile: restare. Guardare. Ricordare. Perchè la fotografia, come ha mostrato Paolo Pellegrin, può diventare memoria viva. E la memoria, quando è autentica, ha sempre la forza di cambiare il mondo.