Nel giorno in cui ricorre il 45° anniversario dell’omicidio del magistrato Gaetano Costa, il Coordinamento Nazionale Docenti della Disciplina dei Diritti Umani intende ricordare una figura esemplare di integrità morale, coraggio civile e rigoroso senso dello Stato, troppo a lungo trascurata dalla memoria pubblica e istituzionale.
Il 6 agosto 1980, alle 19:30, in via Cavour a Palermo, Costa cadeva sotto i colpi della mafia mentre sfogliava dei libri su una bancarella. Era solo. Per scelta. Per coerenza. Per responsabilità.
Costa aveva capito, in tempi in cui la sola parola “mafia” era un tabù sussurrato, che il potere mafioso si era insediato nel cuore stesso delle istituzioni, infiltrando appalti, pubbliche amministrazioni, gangli economici, e trovando protezione nella zona grigia tra politica, affari e criminalità. Per questo, da magistrato, aveva cercato di colpire l’organizzazione mafiosa non solo sul piano penale, ma anche economico, intuendo la necessità, all’epoca rivoluzionaria, di leggi patrimoniali in grado di dissezionare e disarmare il potere mafioso.
Nel 1978 venne nominato Procuratore Capo della Repubblica a Palermo. La reazione fu glaciale. Ostile. Scomodo per la sua autonomia, sospettato per il suo passato da partigiano e comunista, lasciato solo da una magistratura spesso più preoccupata di conservare equilibri interni che di colpire le connivenze. Solo anche quando firmò, da unico magistrato, i mandati di cattura per Rosario Spatola e oltre cinquanta affiliati, in un’indagine che toccava traffico di droga, investimenti immobiliari e la protezione garantita a Michele Sindona. Nessuno dei suoi colleghi volle esporsi.
La solitudine in cui morì Gaetano Costa non è solo fisica. È anche e soprattutto istituzionale. Nessun processo ha individuato i colpevoli. Nessuna sentenza ha reso piena giustizia. Nessun allarme fu preso sul serio prima che fosse troppo tardi. Eppure, il suo esempio ha tracciato una linea netta: tra chi serve lo Stato e chi se ne serve.
Fu uomo rigoroso, austero, lontano dalla retorica, vicino ai deboli, capace di comprendere che il dovere civile, per essere autentico, deve essere esercitato anche a costo della solitudine, della delegittimazione, della morte. Come scrisse un suo sostituto, “di lui si poteva comperare solo la morte”.
Nel ricordare la sua figura, invitiamo le scuole italiane a proporre approfondimenti, laboratori, incontri con testimoni e familiari, affinché la storia di Gaetano Costa non rimanga una parentesi dimenticata nei libri di storia, ma diventi coscienza attiva nelle nuove generazioni. Il suo nome non è solo parte della memoria antimafia: è, per noi, materia viva di educazione civica, diritti umani, responsabilità democratica.
Per questo chiediamo con forza:
– un potenziamento orario reale dell’insegnamento di Educazione civica, non come contenitore generico, ma come laboratorio di Costituzione, lotta alle mafie, cultura della responsabilità;
– la formazione specialistica e continua dei docenti su tematiche legate alla legalità democratica, alla giustizia sociale, ai diritti fondamentali;
– una rete scuola-territorio-giustizia che coinvolga associazioni, magistrati, forze dell’ordine, familiari delle vittime, testimoni attivi del contrasto alla criminalità;
– l’adozione di percorsi didattici verticali, dalla primaria alla secondaria, che promuovano la cultura della legalità come competenza trasversale e fondante della cittadinanza attiva.
La scuola può e deve essere presidio di legalità e giustizia. Ma ha bisogno di strumenti, riconoscimento e continuità.
Se è vero che “chi dimentica è complice”, allora noi, docenti e studenti, non dimenticheremo. E continueremo a raccontare la storia di chi ha avuto “il dovere di avere coraggio”.
prof. Romano Pesavento
presidente CNDDU

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