Antonio Perna

Giornalista free-lance, tessera Odg 58807, cronista dal 1986 anno in cui l'Italia per la prima volta si connette a Internet

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In Italia, il calcio non è uno sport: è una rivelazione periodica del nostro carattere nazionale. E Fiorentina-Juventus lo ha ricordato con l’eleganza di una martellata sul pollice.

Il rigore prima assegnato a Vlahovic e poi negato, dopo un pellegrinaggio al Var degno di un sinodo bizantino, è l’ennesima dimostrazione che il problema non è l’arbitro, né la tecnologia: è il sistema. O meglio: la percezione che il sistema non sia neutrale. E in Italia, quando una percezione si diffonde, diventa verità civile.

Doveri prima vede il fallo, poi Guida al Var gli spiega che no, che il peccatore è il serbo, non la vittima. Un ribaltamento che neppure Kafka avrebbe osato scrivere. Le immagini raccontano una storia, la decisione un’altra. E alla fine la sensazione dominante è che ci sia un copione già scritto, dove la Juventus recita la parte del colpevole a prescindere.

È qui che nasce un’idea che suona sacrilega ma ha il sapore delle rivoluzioni morali: ritirarsi.

Non per ripicca, ma per dignità.

Perché se il calcio diventa una commedia, allora la Juventus dovrebbe alzarsi, salutare il pubblico e lasciare gli altri a recitare.

E poi i cori razzisti contro Vlahovic, la solita vergogna che a Firenze – e non solo lì – viene travestita da rivalità sportiva. Ma il razzismo è razzismo, sempre, comunque, ovunque. L’arbitro ferma il gioco. Peccato non poter fermare l’intolleranza.

La Juventus, naturalmente, resterà nel campionato. Ma la tentazione dell’addio resta un pensiero legittimo, quasi salutare. Per ricordare che il calcio non sopravvive al sospetto eterno. E che a volte, per salvare qualcosa, bisogna prima minacciare di lasciarlo.

 

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