Salvatore Zichichi

Salvatore Zichichi è un medico per devozione, mente innovativa e nerd, crede nelle relazioni umane come leva per trasformare la sanità e la realtà.

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In un mondo dove tutto segue un passo non più umano, dove le generazioni di cambiamento si accorciano, dove il tempo diventa il bene immateriale più prezioso in possesso di ciascuno, la tecnologia avanza a un ritmo vertiginoso, dominando quasi la maggior parte dei settori, anche quelli dove la natura faceva da padrone, anche la sanità si trova a confrontarsi con nuove sfide. Ma tra intelligenza artificiale, app mediche e piattaforme digitali, il cuore dell’assistenza, dell’atto di cura e di attenzione resta sempre lo stesso: l’essere umano in tutte le sue svariate sfumature.

L’empatia, questa vecchia conoscenza, oggi a tratti sconosciuta di cui tutti sentiamo la mancanza, ma talvolta dimentichiamo anche come si chiama. Quella capacità magica di mettersi nei panni dell’altro, di connettersi con l’altro condividendo sensazioni e vivendo da dentro cose a noi estranne, ma che ci toccano permettendoci di sentire il suo dolore e le sue speranze, non è un valore che può essere sostituito da un mero algoritmo. Ma forse, l’amica empatia, alleata della relazione medico-paziente, può essere valorizzata dalla presenza tecnologica, se sapientemente utilizzata ed integrata nei processi. Donandoci tempo e attenzione da dedicare meno a processi prettamente amministrativo-burocratici, che possano essere meglio distribuiti su pazienti ed affetti. 

Il nostro sistema sanitario sta cambiando ed è già cambiato. Come tutte le cose dell’uomo volendo. 
Nonostante Mio padre vecchio medico, usi tutt’oggi un foglio enorme come agenda.
Bisogna fare i conti con la realtà che cambia.
Il cambiamento non è mai “positivo” o “negativo” è un adattamento all’ambiente, alle risorse e alle necessità.

Ogni giorno nei piccoli gesti siamo immersi nella tecnologia che pervade ogni passo della nostra giornata: un medico che consulta il tablet per una cartella clinica aggiornata in tempo reale ( magari non ovunque, ma in molti posti ), un prontuario farmaceutico da consultare tramite app,  un paziente che riceve promemoria per i farmaci e terapia tramite una app che tiene traccia dei suoi progressi, un infermiere che riesce a monitorare a distanza i parametri vitali di una persona fragile, uno psicologo che ascolta a distanza un paziente. 


Dietro a tutto questo non c’è solo tecnologia: c’è una visione.
Quella di una sanità più vicina, più attenta, più umana. Di prossimità. Una sanità che esce dagli studi e dagli ospedali ed entra nella vita delle persone per prendersi cura della popolazione. E cosa non da poco, spesso più rispettosa dei tempi di tutti. 

Come sottolinea un recente articolo di Wired Italia, “la sanità digitale non è solo efficienza: è anche una nuova forma di vicinanza”. Ecco allora che parlare di empatia digitale non è più un’utopia, ma una possibilità concreta che deve perentoriamente essere cavalcata con padronanza e consapevolezza di una evoluzione inevitabile e necessaria in uno scenario che richiede sempre più accessi, più competenze e conoscenze verticali . Secondo, Changes, “l’empatia digitale esiste, e nasce proprio dalla capacità di ascoltare con attenzione, anche attraverso uno schermo”.

Ma cosa significa davvero ascoltare in sanità? 
Ascoltare, è un processo, un atto complesso che richiede allenamento e voglia di connessione con il mondo e con l’altro. 
Non è solo sentire parole, ma molto di più. 
È cogliere i silenzi, leggere le esitazioni, capire cosa si nasconde dietro a un sintomo nascosto da uno sguardo. La tecnologia può aiutare in questo come alleata ferma, puntuale e precisa offrendo strumenti che supportano il medico nel raccogliere ed organizzare le informazioni, ma anche nell’avere più tempo da dedicare alla relazione. Che spesso, non sempre, ma spesso è uno dei motivi per cui si sveglie di fare il medico, avere una relazione “umana” con il prossimo. Sentirsi utili. 


In un articolo sul web leggevo “ascoltare è la chiave dell’esperienza empatica”. E oggi abbiamo la possibilità di farlo meglio.


Certo, non tutto può essere automatizzato.
Ne deve esserlo fatto.
Se deve esserlo sarà un processo necessariamente graduale che deve coinvolgere generazioni e popolazioni diverse con vissuti e “tecnolocizzazione differente”.

L’empatia è fatta di umanità, di contatto visivo, di mani che si stringono, di presenze che rassicurano, di sguardi che raccontano storie, paura e milioni di domande. Ed in questa realtà dove il tempo è sempre meno e i bisogni sono sempre più complessi, l’innovazione digitale può diventare un alleato prezioso.


Nel suo lavoro, la PA sta iniziando a parlare di “amministrazione empatica”, come descritto su ForumPA. Un modello che centralizza il cittadino nella sua esperienza con le istituzioni, anche e sopratutto attraverso il digitale. 
Perché l’empatia non si misura in gigabyte, ma nel modo in cui si usano gli strumenti per migliorare la vita delle persone. Avere accesso attraverso sistemi prima complessi, oggi sempre più semplicizzati attraverso sistemi come l’identità digitale o lo Spid, rende l’esperienza utente sempre più semplice ed intuitiva. Nel rispetto che l’utente finale vuole solo accedere al servizio, non deve diventare un “guru” del sistema per accedere al servizio. Quindi il servizio si deve adattare all’utente, anticipandone le necessità e immaginando soluzioni che possano permettere alle importanti masse che si muovo di accedere, più o meno, ordinatamente ai servizi risolutivi delle necessità del singolo e cosi della collettività.

Anche nella formazione medica si riflette su questi temi. L’Università di Sassari e altri atenei hanno analizzato, attraverso tesi e studi, l’impatto del web 2.0 e dei social media sul rapporto medico-paziente. 

Cambia la comunicazione, come cambiano mezzi, strumenti e sicuramente l’uomo come essere calato nella società e intriso di relazioni, aspettative e necessità, ma resta centrale il bisogno di fiducia.


Oggi più che mai, dopo la pandemia, abbiamo capito quanto sia importante sentirsi ascoltati.
Lavorare in sinergia. E metterci del buono. Ognuno con quello che può.
Assicurandoci sempre di lasciare tutto sempre un poco meglio di come lo abbiamo trovato. 


Abbiamo imparato che non c’è salute senza relazione, che la cura non è solo tecnica ma anche presenza, calore, parola.


Abbiamo scoperto che siamo cosi tanti, che la necessità di sistemi che “salvino il tempo” in favore delle cure, degli accessi e degli ascolti umani è fondamentale. Creando forti sinergie tra tecnologia, organizzazioni e relazioni umani che possano ottimizzare il tempo a disposizione in favore di esperienze produttivamente positive anche e sopratutto in ambienti carichi di “sofferenza” quali quelli sanitari. 

La sanità del futuro, allora, non sarà fatta solo di dati e sensori.
Sarà fatta di persone che, grazie anche al digitale, sapranno essere più presenti, più vicine, più empatiche e speriamo più connesse. 


E in fondo, è proprio questo che tutti desideriamo: avere la consapevolezza che in mezzo a tutta questa tecnologia, evoluzione e strumenti che mutano con la realtà ed i tempi, ci sia sempre qualcuno preparato che abbia la voglia e le energie per ascoltare. 

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