Walter Giannò
Smonto narrazioni, rovescio retoriche, salto a piè pari la censura del buonismo. Scrivo quello che altri evitano di pensare.
Ogni volta che accadono episodi terribili come quello di via Spinuzza, a Palermo, c’è sempre qualcuno pronto a puntare il dito contro le serie TV come Gomorra o Mare Fuori. Così, invece di analizzare i contesti sociali da cui provengono i responsabili, si preferisce attribuire la colpa a prodotti televisivi che, al contrario, hanno il merito di raccontare la realtà — e non di mitizzarla.
Paradossalmente, molti di questi giudizi arrivano da chi non ha mai visto neanche un episodio delle serie citate.
Eppure, l’onestà intellettuale vorrebbe che prima di giudicare qualcosa bisognasse conoscerla. L’arte, in qualunque forma si esprima, non genera il crimine: lo racconta, lo rende visibile, vivo, trasparente, analizzabile.
Il vero errore, invece, è spostare la colpa: accusare più la società che l’individuo, più l’ambiente che il modo in cui ciascuno sceglie di rapportarsi agli altri. È così che nascono generalizzazioni prima pericolose, poi banali. Non sei un “malacarne” se vivi allo Zen, così come non sei un mafioso solo perché vivi in Sicilia.
I responsabili sono, invece, i fattori ghettizzanti: la povertà strutturale, la disoccupazione cronica, la carenza educativa, la sterilità formativa, l’assenza di alternative stimolanti. L’incapacità di offrire input positivi in contesti dove gli output sono già segnali d’allarme.
Ecco il punto: se quei moralisti avessero davvero compreso Gomorra o Mare Fuori, saprebbero che il crimine nasce dove lo Stato arretra, e dove il male trova spazio per riempire i vuoti lasciati dal bene.
La soluzione? Non censurare, ma educare.
Non silenziare le storie difficili, ma insegnare a leggerle, a discuterle, a comprenderle.
Perché un ragazzo che vede Mare Fuori a scuola, accompagnato da un docente capace di farlo riflettere, non sognerà di diventare Ciro o Rosa Ricci, ma capirà la solitudine che li ha resi tali.
Serve un’educazione emotiva e civica che aiuti a decifrare il dolore e la rabbia prima che esplodano. Serve uno Stato che non si limiti a reprimere, ma che sappia abitare i quartieri, riempire di presenze buone gli spazi vuoti, ricucire legami dove la violenza ha tagliato le radici.
Solo allora — quando cultura, responsabilità e presenza reale si intrecceranno — smetteremo di cercare colpe nei film e inizieremo a trovarle nella realtà che abbiamo smesso di guardare.
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