Antonio Perna

Giornalista free-lance, tessera Odg 58807, cronista dal 1986 anno in cui l'Italia per la prima volta si connette a Internet

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Il NO come destino: una lettura storico-filosofica dell’antagonismo al Ponte sullo Stretto

Da oltre mezzo secolo il dibattito sul Ponte sullo Stretto non è soltanto una questione ingegneristica o finanziaria. È, più profondamente, un nodo storico-culturale che tocca il rapporto del Mezzogiorno con il proprio sviluppo e con le forze – interne ed esterne – che ne hanno modellato, e talvolta ostacolato, il cammino.

La resistenza al Ponte non può essere compresa soltanto come un legittimo dissenso infrastrutturale: essa si radica in una più ampia tradizione italiana in cui il Sud diventa terreno di battaglia simbolica. 

Da un lato c’è l’idea del «non ancora»: un Sud troppo fragile per grandi visioni, sempre invitato ad attendere, a rimandare, a sospettare. 

Dall’altro c’è la struttura storica del potere nazionale, che ha spesso tratto beneficio da un Meridione rallentato, dipendente, incapace di emanciparsi attraverso opere che avrebbero cucito il Paese anziché dividerlo.

La filosofia della storia mostra che ogni grande trasformazione incontra opposizioni che non sono neutrali. Nietzsche le avrebbe chiamate forze reattive: spinte che non creano, ma resistono; non immaginano, ma temono; non si espongono, ma trattengono. Il NO come principio identitario.

Nel Mezzogiorno il NO ha spesso avuto un ruolo strutturale: si è opposto alla modernizzazione borbonica, alla riforma fondiaria, all’industrializzazione leggera del dopoguerra, alle infrastrutture che avrebbero potuto ridurre la dipendenza dal centro-nord. Una costante storica vuole che il Sud non debba mai essere troppo connesso, troppo competitivo, troppo protagonista.

Così, il NO Ponte appare oggi come l’ultimo capitolo di un copione antico: rallentare ciò che potrebbe ridurre i divari, aprire i mercati, ricomporre la geografia del Paese.

Dire che i NO Ponte siano “strumenti” non significa demonizzare le persone che ne fanno parte, spesso animate da sincero amore per il territorio. Significa riconoscere che, nella storia, i movimenti di opposizione in aree periferiche vengono facilmente assorbiti – talvolta inconsapevolmente – da logiche più grandi.

Il Sud, infatti, è prezioso proprio perché immobile: politicamente controllabile, economicamente dipendente, socialmente ricattabile. 

Una grande opera che crei continuità territoriale, velocità, investimenti, rischia di alterare equilibri consolidati. Da qui la paura, non sempre dichiarata, di un Meridione che smetta di essere un “problema da amministrare” e diventi un soggetto competitivo.

La filosofia politica ci insegna che il potere preferisce l’inerzia al cambiamento: non perché tema l’opera in sé, ma ciò che l’opera renderebbe possibile.

Il Ponte non è solo cemento e acciaio: è un simbolo. Indica un passaggio, una trasformazione, una riconciliazione geografica e culturale. 

Dove c’è un ponte, c’è movimento; dove c’è movimento, c’è crescita; e dove c’è crescita, crollano i sistemi che prosperano sull’arretratezza altrui.

Per questo, al di là della tecnica, il Ponte incarna un’idea filosofica: quella della continuità. 

Un Sud finalmente integrato nelle rotte europee, nella logistica globale, nel destino del Mediterraneo. 

Un Sud che non chiede più risarcimento, ma partecipa alla costruzione della propria fortuna.

Il Mezzogiorno ha bisogno di una rivoluzione anche simbolica: passare dal “non si può” al “siamo in grado”. 

Il NO Ponte, in questa prospettiva, rischia di perpetuare una narrazione di sfiducia che altri, nel corso della storia, hanno saputo usare a proprio vantaggio.

Non si tratta di demonizzare il dissenso, ma di riconoscere che esistono momenti in cui dire NO significa conservare un limite, mentre dire SÌ significa aprire una storia nuova.

E il Sud ha bisogno, oggi più che mai, di storie nuove.

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