Antonio Perna

Giornalista free-lance, tessera Odg 58807, cronista dal 1986 anno in cui l'Italia per la prima volta si connette a Internet

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Ho sempre pensato – e non da oggi, ma fin da quando mi affacciavo al giornalismo, negli anni Ottanta – che le parole, se non vengono custodite, perdono il loro senso e diventano gusci vuoti. 

“Sovranità” è una di queste parole. 

L’abbiamo pronunciata mille volte: i giuristi l’hanno scolpita nelle Costituzioni, i politici l’hanno brandita come arma, i popoli l’hanno invocata nelle piazze. 

Ma che cosa significa, oggi, in un mondo in cui gli Stati non bastano più a se stessi e le decisioni si prendono a Bruxelles, a Strasburgo, a Francoforte?

Il caso di Ilaria Salis – giovane donna italiana, eletta deputata europea e subito travolta da vicende giudiziarie in Ungheria – ci ha costretto a riaprire questa domanda. 

L’Europarlamento ha deciso di confermarle l’immunità. Si è discusso molto: è un privilegio di casta? È una protezione indebita? O è la salvaguardia della democrazia?

Io credo che l’immunità non sia mai stata, e non debba essere, un salvacondotto personale. 

Non protegge la persona, ma il mandato popolare che quella persona rappresenta. 

È la volontà dei cittadini a essere difesa, non il destino individuale. Qui sta il cuore della questione.

Ricordo un passo di Sant’Agostino, che da ragazzo mi colpì come un lampo: «Un popolo è l’insieme di persone unite dal consenso su ciò che amano». 

Che cosa amiamo, noi europei? A questa domanda non abbiamo ancora risposto. A volte sembriamo amare le nostre patrie antiche, i confini, le lingue, le tradizioni. 

A volte amiamo invece un’idea più vasta: l’Europa dei diritti, della pace, della ragione critica. 

L’immunità concessa a Salis non è altro che una risposta provvisoria a quella domanda: l’Europa sceglie di amare la volontà popolare più delle prerogative dei governi nazionali.

Ma qui s’innesta la contraddizione. Viktor Orbán invoca la sovranità nazionale per legittimare il suo potere. E tuttavia quella sovranità, quando diventa arbitrio, non è più difesa di un popolo: è la sua prigione. 

Ricorda da vicino le pagine di Spinoza, quando scriveva che lo Stato deve garantire la libertà di pensiero, perché senza libertà il potere non è forza ma violenza.

Il problema che ci riguarda tutti, non solo Salis, è che l’Europa vive ancora sospesa. 

Non è uno Stato, non è una federazione, non è soltanto un mercato. È un’idea incompiuta. E quando le idee restano incompiute, diventano terreno di conflitti. 

È per questo che oggi ci troviamo di fronte a un bivio: o l’Europa diventa davvero una comunità politica, oppure sarà travolta dalla rinascita dei nazionalismi, che avanzano a Est ma anche a Ovest, nelle nostre città, nei nostri quartieri.

Nel 1957 con la firma dei “Trattati di Roma” i padri dell’Europa dei popoli pensavano che quell’evento fosse l’inizio di una nuova epoca. 

Non potevano sapere ancora quali ostacoli aspettassero i nuovi europei. Non sapevano che la sovranità, anziché dissolversi, si sarebbe irrigidita, e che ogni passo verso l’unione politica sarebbe stato combattuto come una battaglia di religione.

Oggi siamo ancora lì, in quel limbo. La vicenda Salis ci dice che l’Europa è capace di proteggere i suoi cittadini dall’arbitrio di un governo. 

È una conquista minima, ma non trascurabile. Ci dice che la sovranità appartiene al voto, non al potere. È poco, certo, ma è già molto.

Non illudiamoci: la strada è lunga e fragile. Ma se l’Europa saprà trasformare la difesa di un singolo mandato parlamentare in un principio universale – quello per cui nessuna volontà popolare può essere soffocata da tribunali compiacenti al potere – allora forse avremo fatto un passo decisivo verso una sovranità nuova, più grande delle nazioni, più vasta dei confini.

La politica è sempre stata un intreccio di utopia e realismo. 

L’utopia senza realismo è un sogno che svanisce; il realismo senza utopia è una prigione senza finestre. 

Forse è questo che dobbiamo ricordare oggi: che l’Europa non è ancora la nostra patria, ma può diventarlo se sapremo custodirne l’utopia dentro le regole del realismo.

Sovranità, in fondo, significa questo: sapere a chi apparteniamo e che cosa amiamo. E io credo che noi europei, pur con tutte le nostre contraddizioni, apparteniamo già a un destino comune. Forse è tempo di accorgercene.

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