Salvatore Zichichi

Salvatore Zichichi è un medico per devozione, mente innovativa e nerd, crede nelle relazioni umane come leva per trasformare la sanità e la realtà.

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Scrivere oggi, mentre cadono missili su città dense di storia e dolore, è un esercizio difficile. Luoghi dove cultura, popolazioni, storie si sono mescolate per millenni generando arte, musica, conoscenza.

Oggi la distanza geografica non basta più a separarci. Perché ogni attacco che devasta Teheran o Isfahan, ogni risposta che brucia Haifa o Tel Aviv, ci attraversa. Ci riguarda. E ci coinvolge, che lo vogliamo o no. Non è questione di essere pro uno o pro altro. È il concetto di guerra deliberata ed incontrollata che si deve gestire.

L’Europa assiste a una nuova ferita che si apre nel tessuto del Medio Oriente, dopo l’attacco congiunto di Israele e Stati Uniti ai siti nucleari iraniani. E non è solo una questione di diplomazia o di equilibri geopolitici. È una questione di umanità. In guerra non ci sono né vincitori né vinti. Ma solo chi ci guadagna di più e chi di meno. A rimetterci, sempre, sono le persone. Quelle che non decidono, ma subiscono. Tutto ha preso una piega definitiva nel 2024, quando la tensione tra Israele e Iran ha superato la soglia di contenimento dopo mesi di provocazioni incrociate. Gli attacchi degli Houthi in Yemen – sostenuti da Teheran – contro obiettivi israeliani e sauditi hanno creato un clima di conflitto permanente nella regione. Nel frattempo i negoziati sul nucleare si sono arenati tra accuse reciproche e ritiro degli Stati Uniti da ogni canale negoziale multilaterale. La miccia è stata accesa definitivamente nel maggio 2025, quando un drone partito presumibilmente da milizie iraniane ha colpito una base militare nel nord di Israele, provocando vittime civili. In risposta, Israele ha lanciato una prima serie di raid mirati. Oggi, pochi giorni dopo aver dichiarato che sarebbero passate un paio di settimane per decidere come muoversi, l’amministrazione statunitense ha deciso di unirsi formalmente a Israele, colpendo con armi ad alta penetrazione i siti di Natanz, Fordow e Isfahan: tre centrali chiave del programma nucleare iraniano. L’operazione è stata giustificata come “azione preventiva” per fermare la proliferazione atomica. Adesso gli USA parlano di tempo di pace. La risposta dell’Iran, come per i primi attacchi da Israele, è stata immediata: decine di missili lanciati contro le città israeliane, attacchi contro navi occidentali nello Stretto di Hormuz, minacce dirette alle basi statunitensi in Iraq e Kuwait. Da lì, siamo entrati in una nuova fase del conflitto: una guerra regionale a rischio di espansione globale, in cui le diplomazie faticano a tenere il passo della violenza. Nel frattempo che parliamo i mercati stanno reagendo. Ci siamo abituati a parlare di energia come di un bene tecnico, ma non c’è nulla di più politico. L’80% del gas che arriva in Europa è importato. Il 20% del petrolio mondiale passa per lo Stretto di Hormuz. Bastano queste due cifre per capire quanto la nostra stabilità sia appesa a ciò che accade a migliaia di chilometri da qui. Con i primi attacchi, i mercati hanno reagito: il greggio è schizzato oltre gli 88 dollari al barile, il gas ha avuto impennate a doppia cifra. Ma più dei numeri, mi preoccupa la ricaduta sui cittadini europei più fragili, sulle famiglie che dovranno affrontare l’ennesimo aumento delle bollette, sulle imprese che combattono ogni giorno per restare in piedi. Non è solo geopolitica. È vita reale. Che colpisce tessuti economici, famiglie e persone. L’agenzia dell’UE per la cybersecurity, ha diramato un’allerta preventiva: il conflitto potrebbe aprire scenari di guerra informatica su larga scala. Colpire gli ospedali, i sistemi ferroviari, i centri di emergenza non è un’ipotesi astratta. È già accaduto in Ucraina, ed è tecnicamente alla portata di Teheran e dei suoi alleati regionali. E poi c’è la paura, più sottile, più diffusa. Quella che torna nei nostri aeroporti, nelle stazioni, nei luoghi di culto. La paura che le fratture del mondo arrivino nelle nostre città sotto forma di vendette isolate o attentati organizzati. Le intelligence europee, da Parigi a Berlino, da Bruxelles a Roma, lo sanno bene. O immagino che se ci sto pensando io, sicuramente loro ne sanno molto di più.

Informarsi è fondamentale. Nessun conflitto oggi è davvero lontano, e nessun conflitto è esente da ricadute. Le guerre moderne non si combattono solo sul campo, ma anche nei nostri sistemi, nei nostri mercati, nelle nostre paure. Ci entrano dentro silenziosamente come se non dovessero colpirci e lasciare solo devastazione.

Quando l’Europa non sa che voce usare.

Il cuore della mia amarezza è qui: l’Europa sembra non sapere più cosa dire, né come dirlo. Siamo divisi. Alcuni Stati membri difendono apertamente l’azione di Israele, altri invocano diplomazia e rispetto del diritto internazionale. Ma non c’è un messaggio chiaro, non c’è un’identità politica condivisa. L’Alto Rappresentante Borrell ha chiesto «contenimento» e «ritorno al tavolo negoziale». Ma mentre le parole arrivano con cautela, le bombe cadono con violenza. E il popolo iraniano, come quello israeliano, paga un prezzo altissimo. Come sempre, sono i civili a morire. I bambini, le donne, i vecchi. I più deboli. Eppure nessuna guerra merita un silenzio mediatico. Perché nel silenzio cresce solo l’indifferenza, si smarriscono le responsabilità, si perdono le vite due volte: sul campo e nella memoria collettiva.

Le migrazioni che torneranno a bussare.

Lo sappiamo. L’abbiamo già vissuto. Quando il Medio Oriente brucia, le coste europee diventano frontiera. Oggi non è prematuro dire che l’Italia, la Grecia, i Balcani saranno chiamati a gestire nuovi flussi, nuove richieste di asilo, nuove emergenze. La Commissione europea lo sa, e sta preparando – in silenzio – un piano di redistribuzione per i profughi che potrebbero arrivare. Ma c’è un nodo etico che precede quello logistico: riusciremo a rispondere senza indurirci, senza dimenticare che chi fugge non è un pericolo, ma una vittima? Riusciremo a guardare negli occhi i volti stremati di chi chiede solo un riparo dalla guerra?

Serve un’Europa capace di unirsi e fare sentire il suo peso. 

Siamo a un bivio. Possiamo restare spettatori, o possiamo scegliere di esserci. Di proporre una vera mediazione, di agire nei consessi internazionali con autorevolezza, di investire nella diplomazia preventiva, non solo nelle reazioni tardive. Possiamo sostenere il dialogo multilaterale con l’Iran, come fecero Francia, Germania e Regno Unito con l’accordo sul nucleare del 2015. Possiamo tornare a parlare di pace. Con forza. L’alternativa è questa Europa che osserva, analizza, ma non agisce. Questa Europa che non sa più se è un progetto politico o solo un’unione di mercati. In questo momento, penso alle persone.  Agli amici, ai colleghi in quelle nazioni, ai bambini che non capiscono perché le sirene suonino ogni notte. E sento che il nostro silenzio, oggi, pesa.

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