Walter Giannò
Smonto narrazioni, rovescio retoriche, salto a piè pari la censura del buonismo. Scrivo quello che altri evitano di pensare.
Se io e Ilaria Salis dovessimo sederci a discutere, è assai probabile che i nostri punti di vista sarebbero più distanti che vicini. Su questioni fondamentali potremmo anche arrivare a screzi, forse persino a litigare.
Quando però la Salis era detenuta in Ungheria, ritenevo giusto che il governo italiano si adoperasse per ottenere la sua liberazione o almeno un rimedio che rispettasse le garanzie fondamentali. Non potevo accettare che una cittadina italiana fosse sottoposta a un regime processuale e carcerario che, a giudizio di molti osservatori, non appare compatibile con gli standard occidentali – e ancor meno con quelli che un Paese membro dell’Unione Europea dovrebbe garantire. Del resto, sappiamo quanto il modello democratico ungherese sotto Viktor Orbán abbia mostrato negli anni segnali di ambiguità autoritaria, anche nei rapporti con la Russia.
Non possiamo dimenticare, poi, che, durante la detenzione preventiva dell’europarlamentare, erano emerse segnalazioni su condizioni disumane: celle con presenza di ratti e insetti, carenza di cure mediche urgenti, impossibilità di mantenere l’igiene personale per giorni.
Inoltre, ricordiamo tutti quando, nel dicembre 2023, Ilaria Salis fu portata in aula con cavigliere e catene, a testimonianza della durezza del trattamento subito.
Ecco, il voto di oggi – anche se per un solo voto – è un segnale importante. Non tanto perché “salva” definitivamente la Salis (la vicenda giudiziaria in sé non è conclusa), ma perché certifica che, in Europa, il principio dello Stato di diritto può ancora prevalere, anche quando governi autorevoli tendono a minarne i pilastri interni.
Certo, è legittimo — e doveroso — che Salis venga processata. Ma un processo non può essere una farsa: deve garantire difesa, imparzialità, giustizia. E nel suo caso, queste garanzie non sembravano assicurate sotto il regime giudiziario ungherese.
Per questo credo sia corretto sostenere che il processo debba tenersi in Italia, con le garanzie di equità tipiche del nostro sistema.
Infine, non siamo obbligati a simpatizzare con le idee di Salis. Ma se accettiamo che lei — come chiunque — debba subire condizioni degradanti in carcere o un processo manifestamente squilibrato, stiamo negando, con lei, un pezzo della nostra civiltà.
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