Quaranta gradi all’ombra, se trovi un po’ d’ombra. Il traffico è immobile, le carrozze trainate da cavalli sudati sembrano uscite da un quadro di Goya, ma riverniciato male. Palermo è lì, viva, bollente, sfatta, bellissima e disperata. E tutti fingono che vada tutto bene. Tranne quei turisti che ogni tanto prendono una bottigliata in testa all’ingresso della Vucciria. Poi si domandano: “Ma era questa la movida alternativa di cui parlavano su TikTok?”.
La Vucciria, che era già una zona franca quando ancora si chiamava “luogo della carne”, oggi è diventata una Disneyland del disagio. Ma attenzione: chi pensa che la colpa sia solo del “popolino” che spaccia e mena, vive in un universo parallelo — forse lo stesso universo da cui i cavalli delle carrozze sperano di evadere, immaginandosi unicorni con le ali.
La verità, scomoda come una sedia di plastica alle 14 di luglio, è che la droga a Palermo non è roba da poveri. O non solo. Mentre i benpensanti da salotto parlano di legalità nelle scuole o nei talk show, tra un aperitivo e una call su Zoom, magari stanno aspettando che lo spacciatore li richiami. Perché il crack è “una tragedia sociale”, certo. Ma la cocaina “una cosa ogni tanto, per stare su”.
E nel frattempo nei quartieri popolari — quelli dove le cose succedono sul serio, e non nei salotti di via libertà — la “gente perbene” sa perfettamente chi spaccia, chi mena, chi ruba ai turisti. Ma tace. Perché denunciare è pericoloso, e perché in fondo, se succede al turista, pazienza. Non è mica tuo cugino.
L’illegalità è un ecosistema ipocrita. E Palermo ci sguazza. Da una parte la narrazione del “riscatto”, dell’“orgoglio”, della “città che cambia”. Dall’altra, la vita vera: un ragazzo che si buca dietro la Cattedrale, due scooter che si passano una dose a Ballarò in pieno giorno, un turista stordito e sanguinante che non sa più se sta vivendo un’avventura o una rapina.
E no, non è più solo colpa di “loro”. Perché il problema, a questo punto, siamo anche “noi”. I cittadini a metà. I borghesi a orologeria. Gli indignati del sabato sera, quelli che usano la parola “legalità” come fosse una crema solare: si spalma prima di scendere in piazza, e poi si dimentica nel cruscotto.
La città si scioglie, tra il catrame e l’indifferenza. E i cavalli? Se potessero scegliere, sarebbero già altrove. Magari a galoppare tra le nuvole, lontano da questa Palermo che si vende come meta turistica e si comporta come una madre distratta.
La domanda allora non è “chi è il colpevole?”, ma: quanti colpevoli servono per far sembrare tutto normale?
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