Walter Giannò

Smonto narrazioni, rovescio retoriche, salto a piè pari la censura del buonismo. Scrivo quello che altri evitano di pensare.

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Nella notte, Kiev è stata colpita dall’ennesimo attacco russo. Le sirene, le esplosioni, la corsa nei rifugi: scene che da quasi tre anni fanno parte della vita quotidiana di milioni di ucraini. Il bilancio, aggiornato dal capo dell’amministrazione militare della capitale, Timur Tkachenko, è devastante: 18 morti, tra cui 4 bambini, 38 feriti e almeno 10 dispersi.

I soccorritori, stremati ma instancabili, stanno ancora ripulendo le macerie nel quartiere Darnytskyi, estraendo corpi da sotto gli edifici residenziali sbriciolati dalle bombe. È l’immagine più chiara e più drammatica di ciò che significa vivere in un Paese che da febbraio 2022 resiste a un’invasione militare voluta da Putin per cancellare la sovranità territoriale e politica dell’Ucraina.

Una guerra che continua a mietere vittime

In tre anni, secondo le stime, il conflitto ha già causato tra 270.000 e 340.000 morti tra civili e militari. Numeri spaventosi, che dovrebbero scuotere le coscienze e mobilitare le opinioni pubbliche. Ma non succede. O, almeno, non più.

Nei primi mesi di guerra, le piazze si riempivano di bandiere gialloblù, gli stadi mostravano coreografie di solidarietà, i palchi dei concerti esibivano messaggi di pace. Oggi, invece, il silenzio. L’Ucraina è scivolata ai margini della comunicazione, quasi dimenticata. Non c’è più la spinta emotiva di allora, non c’è più l’urgenza di raccontare. Eppure, i morti continuano ad accumularsi.

Perché non se ne parla più?

È una domanda che pesa e che, inevitabilmente, porta a riflettere.

Con tutto il rispetto per il terribile dramma dei palestinesi, Gaza occupa stabilmente il centro del dibattito pubblico. Ogni giorno immagini, dirette, analisi, proteste, prese di posizione. Perché? Perché Gaza è più “trendy”? Perché è una questione più politica, più divisiva, più redditizia dal punto di vista mediatico? Perché ci sono più video, più immagini capaci di colpire e polarizzare?

O, forse, c’è dell’altro: non si vuole più parlare dell’Ucraina perché, in fondo, si spera che Putin vinca, che arrivi a un risultato definitivo, così da poter dire: “Va bene, la guerra è finita, non ci sarà una terza guerra mondiale”. È questo il pensiero non detto che attraversa alcune cancellerie occidentali e, a tratti, anche l’opinione pubblica?

La responsabilità della narrazione

Il paradosso è evidente: c’è chi continua ad accusare Zelensky di essere il principale ostacolo alla pace, perché non si arrende, perché insiste nel difendere la propria terra. Ma qui non si tratta di un uomo. Si tratta di un popolo intero che non vuole arrendersi. Un popolo che rifiuta di rinunciare alla propria identità, alla propria libertà, alla propria indipendenza.

E allora la vera domanda è: noi, dall’altra parte dell’Europa, siamo pronti ad accettare che un Paese venga spazzato via dalla mappa politica del continente, nel silenzio generale?

Kiev oggi, domani chissà

Quello che succede oggi a Kiev non è un “episodio” isolato, ma la continuazione di una strategia militare che punta a logorare un Paese e, insieme, la memoria collettiva di chi osserva da lontano. Perché quando la guerra smette di fare notizia, diventa più facile ignorarla. E ignorare significa, in qualche modo, accettare.

Ma non possiamo. Non possiamo permettere che il rumore delle bombe venga coperto dal silenzio dei media e dalla distrazione delle opinioni pubbliche. Non possiamo permettere che un conflitto di questa portata venga relegato a “sfondo geopolitico” mentre ogni giorno muoiono persone, bambini inclusi.

Oggi Kiev piange 18 vittime, quattro delle quali avevano appena iniziato a vivere. Domani, se il silenzio continuerà, rischiamo di piangere la scomparsa di un’intera nazione dalla geografia della libertà europea.

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