• Come vive questo processo la Chiesa locale?
• Ripeto che c’è diffuso un sentimento di diffidenza, che spesso può degenerare in paura. Detto in altri termini: le persone sono molto arrabbiate e ripetono sempre questo ritornello: “Danno soldi agli stranieri e non ai nostri figli”. Accanto a questo sentimento più diffuso c’è l’esperienza di chi si apre allo straniero. E ciò deriva sempre da una esperienza concreta di conoscenza, di rapporto, di lavoro in comune, di amicizia con i propri figli, di convivenza in parrocchia; la definisco una esperienza di fisicità in grado di generare immedesimazione e superare questa iniziale diffidenza. E anche se nelle parrocchie, nelle omelie, quotidianamente parliamo di accoglienza, chi ci ascolta rimane fermo.
• E quale via state percorrendo?
• L’unico modo è stato, come ho detto prima, di condurli al contatto fisico, alla conoscenza diretta, da uomo a uomo. La difficoltà più grande è con quelli arrivati più di recente. Quelli che si chiamano di seconda generazione sono ormai pressoché integrati perché inseriti a pieno titolo nella nostra convivenza civile e sociale. Naturalmente i nostri giovani sono più aperti delle famiglie da cui provengono perché li trovi presenti in tutti i luoghi di socialità della nostra realtà locale, dalla scuola al lavoro, dal divertimento allo sport. Gli adulti hanno un rapporto “mediato” per esempio con la televisione, ma l’immediatezza del rapporto fa scattare la molla del rapporto.
• Qual è il suo giudizio su quanto sta facendo la Chiesa siciliana?
• La Chiesa siciliana ha finora dato grande disponibilità di uomini, mezzi e soldi. Ma di queste tre cose la più importante, anche dal punto di vista quantitativo, è la prima. Basti pensare a quante sono le persone della Caritas e dei Movimenti ecclesiali che stanno in modo stabile ad accogliere queste persone quando sbarcano. E la qualità della loro accoglienza non è uguale a zero. Vorrei raccontare un fatto.
• Prego.
• In occasione del raduno delle chiese luterane tenutosi l’anno scorso, si sono intrattenuti ad Acireale una quarantina di pastori, di cui una trentina tedeschi. Solo tre o quattro erano italiani. Ad un certo punto mi hanno chiesto: l’organizzazione dell’accoglienza è solo un business, visto che avete tanti disoccupati, oppure c’è dell’altro? Ho risposto che certamente c’è un risvolto occupazionale, anche se non siamo di fronte a grandi numeri. Ho colto l’occasione per spiegare che in queste cooperative si lavora molto e non sempre con un ritorno economico adeguato. Molti degli operatori, cattolici o meno, si stanno dimostrando generosi, danno l’anima per garantire buone condizioni di convivenza agli assistiti. Va però detto che tutti quelli che arrivano, conoscendo in anticipo tutto o quasi della Sicilia, di cosa va e di cosa non va, vogliono andare via.