La Chiesa italiana ha celebrato domenica la Giornata del Migrante e del Rifugiato. Anche sulla base delle sollecitazione offerte dal Messaggio di Papa Francesco che ha scelto come tema “Migranti e rifugiati ci interpellano. La risposta del Vangelo della misericordia” si sono svolte in tutte le Diocesi varie iniziative.
Siamo andati a Catania alla Mensa che la Caritas gestisce da alcuni anni per parlarne con uno dei responsabili, Salvo Guarnera, un medico che opera in un Centro di alta Specialità di Cardiochirurgia e Cardiologia e che da alcuni anni svolge volontariato in questa struttura.

In quale contesto storico, sociale, economico avete ricordato questo annuale appuntamento nella struttura nella quale operate?

“Anche quest’anno è stato posto l’accento sulle nuove povertà indotte dalla globalizzazione e da quella che Papa Francesco ha definito una “guerra mondiale a pezzi”.

Quale servizi rende questa mensa alla realtà cittadina catanese?

“Questa mensa accoglie chiunque si presenti alla porta: molti nostri concittadini indigenti, e soprattutto moltissimi migranti ed immigrati. Globalmente 200-250 persone per giorno, anche 350-400 nei periodi in cui si intensificano gli sbarchi lungo le coste della Sicilia Orientale”.

E come si svolge in concreto il vostro lavoro?

“I volontari iniziano il loro impegno nel pomeriggio, prima per cucinare, poi per servire ai tavoli la cena e infine per riordinare. Vengono preparati dei pasti anche per coloro che non vogliono o non possono arrivare alla mensa, raggiunti in giro per la città da altri volontari della “Unità di Strada”.

Chi contribuisce e come a reperire i cibi che poi vengono cotti e distribuiti?

“La Caritas Diocesana tramite l’8 x1000, le donazioni di supermercati/mercati agroalimentari/panifici, i sequestri di alimenti effettuati dalle forze dell’ordine pubblico statale e comunale, le donazioni di privati e di associazioni, e la generosità dei volontari stessi che contribuiscono all’acquisto delle materie prime”.

C’è anche un contributo delle istituzioni locali (Comune) o nazionali (Ministero)?
“No, purtroppo no”.

Quale sviluppo ha avuto questa attività negli ultimi anni?

“Quando ho conosciuto questa realtà, circa tre anni fa, la mensa funzionava tutti i giorni tranne il sabato e la domenica per mancanza di un numero sufficiente di volontari. Pian piano sia per le richieste sempre crescenti sia per gli appelli rivolti periodicamente dalla Caritas a tutte le realtà ecclesiali della Diocesi, ma anche a singole persone, il numero dei volontari è gradatamente aumentato”.

Qual è il suo compito specifico?

“A me è stato chiesto in particolare ormai due anni fa, di garantire la mensa del sabato con l’impegno a farmene carico integralmente e a cercarmi anche un adeguato numero di collaboratori. Inizialmente mi sono rivolto agli amici di Comunione e Liberazione, ma ben presto si sono aggiunti tanti altri coinvolti innanzitutto dalla bellezza dell’esperienza che facevamo e di cui cercavamo di parlare a tutti. Infatti, per un passa-parola, molti hanno saputo ed hanno deciso di unirsi a noi perché desiderosi di “fare il bene” (il che di suo è già bello); poi sono rimasti stupiti soprattutto dall’amicizia accogliente che c’è fra noi e dalla fraternità operosa. Ho negli occhi lo sguardo di molti che, dolorosamente colpiti dalle vicende della vita, ritrovano in questo gesto una speranza ed il gusto per la vita stessa”.

Che giudizio si può trarre dopo due anni?

“Oggi il nostro gruppo conta circa 90 persone; da qualche mese si è aggiunto anche un bellissimo gruppo di ragazzi liceali accompagnato dai loro professori. Questa numerosità ci ha consentito un anno fa di aprire la mensa anche la domenica, che è il giorno più bello, anche perché si celebra la Messa nella sala-mensa. Spesso è celebrata dal Direttore della Caritas, Don Piero Galvano, che è in grado di coinvolgere con la sua persona anche molti degli assistiti che poi si fermano per il pranzo”.

Il vostro compito è solo quello di cucinare e servire ai tavoli?

“Con Don Piero è cresciuto un rapporto di stima e di fiducia tale che adesso sempre più spesso ci affida la responsabilità di accogliere e “guidare” tanti altri volontari a noi sconosciuti. Grazie a questa amicizia si sono coinvolti nel servizio altri gruppi parrocchiali con i quali coordiniamo i turni della domenica, e così siamo riusciti a conseguire l’obiettivo più qualificante: la mensa adesso è aperta tutti i giorni dell’anno! Ma non c’è solo questo”.

Cosa ancora?

“Abbiamo in progetto di costruire un centro di “ascolto” sanitario e da lì una “rete” sanitaria per rispondere al bisogno di salute dei più indigenti e dei migranti.

Da cosa nasce questa nuova offerta?

“Dalla convergenza di due elementi: molti volontari lavorano nel settore sanitario e molti di quanti vengono magari solo per mangiare hanno spesso problematiche di tipo sanitario, soprattutto quelli che sono senza fissa dimora”.

Pur con tanta generosità, non avete la percezione di non potere far fronte ad una quantità del bisogno che aumenta di giorno in giorno?

“Si, è così! Spesso ci sentiamo inadeguati al bisogno. Ma soprattutto con l’aiuto di don Piero riusciamo a comprendere che è proprio vero che ciò di cui la gente ha bisogno non è solo di essere sfamata, ma soprattutto di essere guardata come persona e voluta bene. Che altro sguardo si può donare al migrante o al povero che penserà cento volte al giorno che la vita non è altro che cattiveria, e che il suo metodo è la sopraffazione dell’altro?”

Quindi non è una condizione idilliaca quella in cui operate?

“Inutile nasconderselo: molti dei nostri poveri, stanziali o migranti, sono incattiviti e senza speranza, e ce lo dimostrano i momenti di tensione che ogni tanto si vivono a mensa quando avanzano richieste che non possiamo soddisfare, quando sono ubriachi, quando sospettano che rubiamo i soldi destinati a sfamarli meglio e di più”.

E come rispondente a queste circostanze così dure?

“Più che con le parole con il nostro atteggiamento, testimoniando con il nostro abbraccio che il Bene c’è, e noi che ne siamo stati raggiunti dobbiamo testimoniarlo. Ma c’è un’altra cosa che colpisce queste persone”.

Quale è?

“L’unità che viviamo tra noi volontari. Ormai noi conosciamo molti dei nostri più abituali frequentatori, che sono soprattutto quanti risiedono in città, e loro conoscono noi e le nostre storie. Sanno che veniamo da esperienze e vicende diverse, ma si accorgono che siamo uniti in un comune impegno, che non è né strumentale né effimero. Questo lì interroga più di qualunque discorso sulla necessità di essere buoni”.

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