Le nostre città hanno bisogno di rigenerazione: per quanto possa sembrare un percorso lungo, tortuoso e difficile è necessario che esse, partendo da una rinnovata attenzione ai veri bisogni dei suoi cittadini, vengano ripensate e reinventate in nome soprattutto della cooperazione.

È questo il messaggio principale partito oggi dal centro ZO in occasione del convegno “Quale ruolo per la cooperazione di abitanti” che si inserisce in una giornata che ha avuto un filo conduttore, ossia “RiGENERARE dalle differenze”; Confcooperative ha proposto momenti di studio e approfondimento sui temi della RiGenerazione urbana e sociale realizzati in collaborazione con Federabitazione, Federsolidarità e Consorzio Sol.Co Rete di Imprese Sociali Siciliane con la partecipazione di Alessandro Maggioni, Presidente di Federabitazione; dei professori Carlo Pennisi e Filippo Gravagno dell’Università degli Studi di Catania; di Toti di Dio, Architetto e Attivista e dell’Architetto Paolo Mazzoleni, direttore scientifico del concorso AAA Architetti Cercasi. Tuto parte proprio da un concorso d’idee che ha visto protagonista una ex palestra sita nella piazza Pietro Lupo di Catania e che ha coinvolto tanti giovani architetti under 32 provenienti da tutta Italia e non solo. L’iniziativa è stata promossa e attuata da Confcooperative – Federabitazione, patrocinata da Fondosviluppo, Ministero delle infrastrutture.

Ciò che serve – come hanno dichiarato i vari relatori – è parlare, ragionare, ricordare che prima di tutto siamo comunità: se lo stato arretra e il privato è scarico, la comunità locale è chiamata a riorganizzarsi. Paradossalmente il fenomeno è in un stato più avanzato nelle comunità più piccole, nelle aree interne, mentre nei centri abitati più grandi diventa più complicato ragionare da comunità. In ogni caso c’è un problema serissimo di rarefazione di classe dirigente degna di questo nome. Mancano anche le competenze tecniche oltre alle capacità manageriali.

Eppure Confcooperative ha già cominciato questo percorso: cooperative di comunità, cooperative di utenza e di abitanti, sanità leggera, presidio degli ospedali di comunità; dunque lo sviluppo della città oggi dipende dalla capacità di reinventare l’uso degli spazi mettendo a sistema interessi e opportunità di diversa natura.

Viviamo, infatti, cambiamenti sociali, economici e culturali e le città sono chiamate a modificarsi e riorganizzare lo spazio abitato in base a nuovi principi e a nuove logiche di sviluppo: da questo punto di vista i “vuoti urbani” e gli spazi non più utilizzati si offrono come opportunità per ripensare le funzioni del territorio sviluppando nuove sinergie tra pubblico, privato e sociale. E bisogna farlo anche innovando: nella competizione crescente tra aree e attori della trasformazione urbana e per migliorare la qualità della vita nella città, l’innovazione nel disegno dei servizi, la qualificazione dei modelli di sviluppo e la cura del rapporto con il territorio sono obiettivi strategici verso cui diviene prioritario orientare ogni intervento. Accanto a ciò, in condizioni di scarsità di risorse l’ottica della sostenibilità porta a scommettere sulla relazione positiva e virtuosa che si può instaurare tra iniziative che perseguono interessi particolari (e che possono riguardare un’area, un gruppo sociale, un business) e obiettivi più generali (che riguardano la collettività e il bene comune).

“La rigenerazione urbana e la riqualificazione del patrimonio edilizio sono la più grande sfida che il nostro Paese ha davanti per guardare al futuro. E’ del resto condivisa l’idea che pochi Paesi al mondo hanno la possibilità di creare lavoro e di attrarre talenti, di migliorare la vita quotidiana delle persone e di valorizzare spazi dentro un patrimonio diffuso e articolato di centri urbani. Eppure, ancora oggi, – dicono dalla fondazione Riuso – rimane una grande occasione non sfruttata. E’ vero, in alcune città sono state recuperate aree dismesse e messi in moto processi virtuosi, in altre si sono realizzati interventi di recupero con ottimi risultati, la manutenzione del patrimonio edilizio cresce per quantità: ma siamo ben lontani dalla dimensione di cui avremmo bisogno non solo rispetto alle opportunità, ma soprattutto ai problemi. Milioni di persone vivono in edifici brutti, in molti casi pericolosi e con pessime condizioni di comfort (caldi d’estate e freddi d’inverno), in periferie senza qualità o spazi pubblici degni di questo nome, in attesa di bonifica o di un nuovo destino da decenni. La Fondazione Riuso nasce con l’obiettivo di contribuire a rompere le barriere che oggi impediscono il salto di scala nei processi di cui avremmo bisogno.”

Dunque tutto passa dalla rigenerazione urbana: una locuzione che, traducendo l’inglese “urban regeneration”, designa i programmi di recupero e riqualificazione del patrimonio immobiliare per garantire qualità e sicurezza dell’abitare dal punto di vista sociale e ambientale, in particolare nelle periferie più degradate. Interventi che, rivolgendosi al patrimonio edilizio preesistente, limitano il consumo di territorio salvaguardando il paesaggio e l’ambiente. Attenti alla sostenibilità, tali progetti si differenziano da quelli di urban renewall (rinnovamento urbano), spesso rivelatesi interventi di demolizione e ricostruzione a carattere più o meno speculativo.

Ma quali possono essere definiti interventi di recupero e riqualificazione del patrimonio immobiliare per garantire qualità e sicurezza sia dell’abitare ma più in generale della vita in una città complessa come Catania?

La vulnerabilità del patrimonio immobiliare non riguarda solo l’eventualità di un fenomeno catastrofico, ma è insita nella stessa natura del modo di costruire degli ultimi 60 anni. Dal secondo dopoguerra l’uso del calcestruzzo armato, nelle carie declinazioni, è diventato preponderante se non addirittura l’unica modalità di costruire se si fa eccezione di rare strutture in acciaio o in muratura portante. Ma dopo oltre mezzo secolo ci accorgiamo che il calcestruzzo non è eterno. Ha una sua deperibilità, che è accelerata nei casi in cui i materiali originari non erano di buona fattura. Ecco che allora è esperienza comune quella d’individuare riduzione della sezione di pilastri resistenti a schiacciamento, scopertura e carbonatazione delle armature con conseguente diminuzione anche della sezione delle stesse. E questo è quello che appare nelle parti in elevazione fuori terra. E’ ragionevole pensare che tale degrado sia molto più attivo nelle parti “nascoste”. A ciò si aggiunga la cristallizzazione del calcestruzzo, che, col tempo, tende a diventare più rigido e quindi a reagire peggio a onde meccaniche come quelle di un terremoto. Ne segue che il rischio di crolli anche consistenti è reale al di là se si verificherà o meno un evento catastrofico.

Quali strumenti abbiamo e chi dovrebbe gestirli? Il “rinnovamento urbano” del patrimonio immobiliare – che non è la rigenerazione urbana – è nelle mani dei privati, che ovviamente ragionano da privati e spesso non “ragionano” soprattutto quando la decisione d’interventi quantomeno conservativi dipende da una maggioranza assembleare, come nei condomini. In quei casi prevalgono altre ragioni piuttosto che quella della salvaguardia del patrimonio edilizio, che comunque dovrebbe essere un interesse notevolissimo (in quanto economico) per questi privati. Una maggioranza di privati che non decide di avviare interventi, pur di fronte ad un pericolo reale, nei fatti paralizza una rigenerazione urbana su vasta scala.

Utile in tal senso il concorso AAAarchitetticercasi che ha coinvolto giovani architetti under 32 provenienti da tutta Italia: un premio promosso da Federabitazione Confcooperative, allo scopo di far emergere giovani talenti e per diffondere la cultura dell’abitare cooperativo. I giovani professionisti hanno lavorato sulla palestra abbandonata di Piazza Pietro Lupo, reinterpretandola secondo la loro visione: l’hanno, insomma, rigenerata.

A vincere il progetto curato da Giovanni Bravin, Elena Antoniolli e Nicola Sutto.