Riceviamo e volentieri pubblichiamo.
Per ricordare Aldo Moro, nel 40° anniversario del suo sacrificio, ci viene incontro una famosa citazione di Alcide De Gasperi sulla differenza tra un politico e uno statista.
Un politico- diceva De Gasperi- guarda alle prossime elezioni, lo statista alla prossima generazione.
Le scelte politiche di Moro furono, infatti, sempre ispirate al bene comune e al futuro del paese di fronte ad eventi complessi e drammatici che hanno caratterizzato la storia d’Italia dal dopo guerra.
Nel 1960 la formazione del governo Tambroni, un monocolore DC con tendenze apertamente autoritarie, sostenuto, infatti, dai voti del partito neofascista (MSI), provocò la durissima reazione del partito comunista e della CGIL con scioperi e manifestazioni che paralizzarono il Paese con una scia di sangue da Reggio Emilia a Palermo, il famoso Luglio ’60, creando una situazione a limite del moto insurrezionale.
Fu Moro tra i primi a cogliere la gravità di quella situazione, sia per la durezza della posizione comunista, sia per i torbidi intrecci che stavano dietro l’operazione Tambroni e a porre fine a quel pericoloso governo.
Intervenendo al consiglio nazionale della DC, infatti, nel ribadire le radici popolari e antifasciste della DC, espresse una severa condanna di quell’esperienza giudicando nefasto il rapporto con gli eredi del fascismo che aveva solo contribuito ad allargare lo spazio politico dei comunisti e a ricacciare i socialisti su posizioni frontiste, di alleanza cioè con il PCI.
Era necessario pertanto imboccare strade nuove aprendo alla collaborazione con i socialisti e contrastando il PCI sul terreno democratico, abbandonando l’anticomunismo, usato sono parole sue “ per coprire politiche di conservazione e di oppressione sociale”.
Inizia cosi l’esperienza politica di Moro che rappresentò una fase d’innovazione e di modernizzazione, propedeutica a quella che sarà poi chiamato “il miracolo economico” dell’Italia.
Nel promuovere questo cambiamento Moro coglieva anche le novità che maturavano a livello internazionale con l’ascesa al papato di Giovanni XXIII, l’elezione di John Kennedy alla presidenza degli Stati Uniti, le speranze suscitare dalla sua Nuova Frontiera e il processo di destalinizzazione in URSS con l’avvento di Krusciov.
Questo nuovo corso della politica italiana trova un momento più alto di elaborazione nel convegno di San Pellegrino (1961) in cui Moro propone di abbandonare l’idea della DC come Partito- Stato e dello sfondamento a sinistra, sostenuta da Amintore Fanfani e di inserire l’Italia a pieno titolo nel novero degli altri paesi europei, correggendo l’anomalia italiana con il suo più forte partito comunista dell’occidente capitalistico e di un partito socialista ben distante dal ruolo che svolgevano le socialdemocrazie europee.
Dal convegno di San Pellegrino nasce, infatti, la carta programmatica del futuro governo di centro sinistra come coagulo storico tra il riformismo cattolico e il riformismo socialista e un’inedita riflessione sul rapporto con i comunisti che Moro porterà avanti coerentemente e gradualmente, in sintonia con la sua personalità, fino al suo sacrificio.
Inizierà con la sfida democratica del centro sinistra, continuerà con la strategia dell’attenzione, dopo gli avvenimenti del 1968, fino al confronto programmatico e al governo di solidarietà nazionale.
Il ciclone del ’68 che aveva investito la scuola, la famiglia, l’università e lo stesso mondo cattolico, sul piano politico aprì una fase d’instabilità che Berlinguer da un lato e Moro dall’altro tentarono di superare, il primo con la proposta del compromesso storico e il secondo con l’avvio della collaborazione programmatica con il PCI, le famose ” convergenze parallele”.
E non è un caso che Moro fu tra i pochi politici italiani a cogliere la novità di quell’avvenimento e intervenendo al consiglio nazionale (novembre 1968) dirà:
“….il fatto che i giovani, sentendosi a un punto nodale della nostra storia, non si riconoscano nella società in cui vivono e la mettono in crisi, sono tutti segni di grandi cambiamenti, del travaglio doloroso da cui nasce una nuova umanità”.
Non mancarono le ostilità, anche pesanti, all’interno del suo partito per contrastare questo progetto di cambiamento al punto che, nel 1971, la sua candidatura alla presidenza della repubblica, sostenuta dal PCI, fu osteggiata dalla destra democristiana che riuscì a eleggere Giovanni Leone con il voto determinante del Movimento Sociale.
Sarà poi un avvenimento internazionale che spingerà a una svolta le due principali forze politiche del Paese.
Il colpo di stato in Cile che se da un lato alle sinistre stroncava violentemente la possibilità di accedere al governo per via democratica, dall’altro nonostante il sostegno dato dalla DC cilena alla caduta di Salvatore Allende questo non la risparmierà dalla dura repressione cui sarà pure sottoposta e la messa fuorilegge insieme alle altre forze politiche.
Nasce così il compromesso storico, anche se Moro non usò mai questa espressine che è di Berlinguer. Al di là delle formule e delle molteplici interpretazioni quella proposta mirava, essenzialmente, a un nuovo patto costituzionale che impegnava il PCI ad abbandonare ogni tentazione di tipo sovietico in una sua eventuale partecipazione al governo e impegnava la DC a rispettare il risultato elettorale con un’opposizione leale e democratica e garantendo nei confronti degli Usa e dell’Alleanza Atlantica nessuna tentazione cilena di rovesciare il terreno democratico e costituzionale.
In tal senso, Moro parlerà, nel celebre discorso di Benevento, dell’apertura di una Terza Fase della politica italiana in cui la DC non avrebbe potuto esercitare più il potere come prima nella consapevolezza che la crisi se non affrontata adeguatamente avrebbe travolto con il Paese la stessa Democrazia Cristiana.
Infine la politica di solidarietà nazionale, suo ultimo impegno politico e civile dettato dai nuovi rapporti di forza nati dalle elezioni del 1976, in cui il partito comunista conseguì il 34% dei consensi, per cui Moro comprende bene che non si può governare contro i comunasti ma nemmeno senza i comunisti.
Da qui il suo capolavoro: aggregare i comunisti al governo senza farli partecipare, anche se questo non fu sufficiente a placare le ostilità all’interno del suo partito e sopratutto a livello internazionale. Gli USA erano decisamente contrari (si ricorda la furiosa reprimenda di Henry Kissinger a Moro), così come era contraria l’Urss, interessata a mantenere inalterato l’equilibrio internazionale.
La politica di solidarietà nazionale nasceva, però, soprattutto dalla grave condizione in cui l’Italia versava, con un’inflazione alle stelle, un’economia in crisi, continui scioperi selvaggi e con l’ordine pubblico continuamente minacciato da attentati terroristici e atti di violenza.
Con la politica di solidarietà nazionale Moro intendeva avviare quella svolta in grado di realizzare “quella concordia nella diversità che appare l’alternativa, speriamo vincente, alla dissoluzione del tessuto sociale e alla disgregazione dell’ordine politico che ci minacciano”.
Un progetto politico di grande respiro che viene interrotto nel momento in cui subisce l’attacco di un soggetto estraneo alla logica democratica e parlamentare che è il Terrorismo.
La mattina del 16 marzo, infatti, con una perfetta operazione militare, un commando delle Brigate Rosse rapisce Aldo Moro mentre sta per recarsi alla Camera dei Deputati per partecipare a una storica seduta che rappresentava un passaggio fondamentale del suo progetto politico: l’ingresso del PCI nella maggioranza.
L’uomo simbolo della DC che due anni prima, in occasione del dibattito sullo scandalo della Lockheed, in cui erano coinvolti esponenti democristiani di primo piano, aveva dichiarato con tono profetico, “ non ci faremo processare nelle piazze”, veniva rapito barbaramente, processato, condannato e ucciso in modo disumano da un sedicente tribunale del popolo.
Non sappiamo come sarebbe stata la storia d’Italia se Moro avesse potuto continuare la sua azione politica, la storia non si fa con i se. Sappiamo però che con la sua morte inizia la fase di disgregazione della Prima Repubblica. L’eredità politica che Moro ci lascia è un’idea laica della politica, pur se animato da un profondo sentimento religioso. Un’idea della politica come la più nobile delle arti, sempre rivolta al Bene Comune, accompagnata dal rifiuto del moderatismo e del radicalismo. Questi , diceva Moro, si presentano apparentemente opposti, ma sono le facce della stessa medaglia che si autoalimentano a vicenda per bloccare ogni sforzo riformatore. Due pericoli di grande attualità da evitare se si vogliono affrontare e vincere le difficili sfide che ci attendono.
Elio Sanfilippo
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