Oggi la Chiesa italiana celebra la Giornata Mondiale del migrante e del rifugiato. Fu istituita per la prima volta il 21 febbraio 1915 a seguito della lettera circolare “Il dolore e le preoccupazioni”, che la Sacra Congregazione Concistoriale inviò il 6 dicembre 1914 agli Ordinari Diocesani Italiani. In essa si chiedeva di istituire una giornata annuale di sensibilizzazione sul fenomeno della migrazione e anche di promuovere una colletta in favore delle opere pastorali per gli emigrati Italiani e per la preparazione dei missionari d’emigrazione.

Il tema scelto da Papa Francesco per questa edizione si inserisce logicamente nel contesto dell’Anno della Misericordia ed è, infatti. “Migranti e rifugiati ci interpellano. La risposta del Vangelo della misericordia”. Nella prima parte “Migranti e rifugiati ci interpellano”, si fa presente la drammatica situazione di tanti uomini e donne, costretti ad abbandonare le proprie terre. Di fronte al rischio evidente che questo fenomeno sia dimenticato, il Santo Padre presenta il dramma dei migranti e rifugiati come una realtà che ci deve interpellare.

Nella seconda parte “La risposta del Vangelo della misericordia”, si collega in modo esplicito il fenomeno della migrazione con la risposta del mondo e, in particolare, della Chiesa. In questo contesto, il Santo Padre invita il popolo cristiano a riflettere durante il Giubileo sulle opere di misericordia corporale e spirituale, tra cui quella di accogliere i forestieri.

Di questo e più in generale dell’impegno della Caritas siciliana verso i migranti BlogSicilia ha parlato con don Vincenzo Cosentino direttore dell’Ufficio Regionale Caritas della Conferenza episcopale siciliana.

Don Vincenzo in quale contesto siciliano si celebra quest’anno la Giornata del Migrante e del Rifugiato?
“C’è in questo momento un aumento incredibile di persone che emigrano, non solo dal sud verso il nord dell’Europa, per cui la Sicilia e diventata la porta d’ingresso all’Europa, ma anche da est, sia via terra che via mare. Tutto ciò non ha precedenti storici a memoria umana. Noi abitando in Sicilia abbiamo la percezione che la maggioranza emergenza venga dal Mediterraneo, ma il fenomeno è ben più vasto”.
Cosa significa allora celebrare la Giornata del Migrante?
“Questa giornata significa che noi come cristiani siamo interpellati e dobbiamo dare una risposta alla domanda: come accogliamo? Ma accoglienza non significa solo andare al porto di Palermo, di Catania o di Pozzallo, e offrire generi di prima necessità ai sopravvissuti alle traversate. Significa anche chiedersi cosa fare per accompagnare queste persone nell’ingresso nella nostra società e integrarle al meglio nel nostro modo di vivere e di pensare, rispettando la loro diversità”.
Cosa fa la Caritas siciliana per queste persone?
“Innanzitutto tutte le Caritas siciliane, riunite per Diocesi e presenti in tutte le parrocchie, partecipano ad un progetto nazionale che si chiama: “Rifugiato a casa mia”. Questo progetto è nato tre anni fa, cioè prima dell’appello del Papa che tutti conosciamo, ed ora, anche per dar seguito al Suo invito, ha ripreso impulso. Non riguarda l’accoglienza nei  centri di accoglienza, ma nelle famiglie italiane”.
E in concreto?
“In concreto, quelle che si rendono disponibili per accogliere uno o più immigrati a casa propria, dopo aver dato la propria disponibilità, vengono selezionate dalla Caritas locale, quindi preparate anche con corsi di formazione e poi ad esse vengono affidate temporaneamente queste persone straniere. Capite bene che in questo modo l’integrazione funziona e da ottimi risultati, anche nel tempo. All’inizio tre anni fa coinvolse 12 Diocesi e alle famiglie veniva dato un piccolo contributo economico. Adesso riguarda quasi tutte le Diocesi e alle famiglie non viene dato alcun contributo”.
E chi sono le persone che possono essere affidate alle famiglie italiane?
“La Caritas si fa carico delle persone che rientrano nella rete di protezione internazionale o di rifugiato o di richiedente asilo ed accompagna e sostiene le famiglie italiane su quegli aspetti cui è più difficile far fronte, come per esempio la richiesta dei documenti o la regolarizzazione della propria posizione giuridica”.
E per il resto?
“Al resto devono pensare le famiglie. Mi riferisco innanzitutto al sostegno alimentare, alle condizioni igieniche e sociali dell’abitazione, all’inserimento nella vita sociale del luogo dove si trovano. La Caritas con le sue strutture è sempre accanto a loro per ogni tipo di intervento che si rendesse necessario. Le famiglie che si rendono disponibili devono assicurare alcune condizioni minime di spazio, di igiene, di alimentazione, lasciando assoluta libertà di movimento a queste persone”.
Che tempi ha questo intervento?
“Questa accoglienza può durare al massimo sei mesi che è il tempo grosso modo necessario perché la famiglia o il singolo ottenga la richiesta di asilo e possa decidere quindi cosa fare in seguito: se rimanere in Italia trovandosi quindi un lavoro e una casa o andare via per raggiungere parenti o amici in altre zone d’Europa”.

E se i tempi per ottenere questo riconoscimento sono più lunghi di sei mesi che si fa?
“Adesso le Commissioni del Ministero sono aumentate di numero e sono presenti in quasi tutte le provincie della Sicilia. Il fatto nuovo è che il numero dei richiedenti nell’ultimo anno è aumentato di molto e quindi, malgrado l’alacre lavoro dei componenti, le Commissioni accumulano ritardi. Capita anche che il migrante appena giunto al porto dichiari generalità false per varie motivazioni, primo tra tutte la paura e l’ignoranza delle leggi vigenti. Quindi la Commissione impiega più tempo per accertarne la provenienza, l’identità e quindi il titolo di rifugiato. Ma se sei mesi non bastano la Caritas continua l’assistenza, invitando la famiglia ad aumentare la disponibilità o trovandone una nuova”.

Quale giudizio può dare di questa esperienza?
“Assolutamente positivo, soprattutto se si svolge in Comuni piccoli in cui i rapporti sociali sono più certi. Io vivo a Mezzojuso e come comunità parrocchiale ci siamo fatto carico di 3 famiglie: significa in totale 6 persone su 3000 abitanti; un buon rapporto che incide innanzitutto sui rapporti umani che diventano un arricchimento reciproco”.

E chi volesse partecipare di questo progetto cosa deve fare?
“Soprattutto nel caso di comunità, come sono ad esempio le Parrocchie, occorre trovare, magare affittandolo per l’occasione, un alloggio adatto per il numero di persone che si intendono ospitare e quindi rivolgere esplicita richiesta alla Caritas locale. Giunta la famiglia la comunità nel suo complesso deve farsi carico della vita di quelli che si accolgono. La Caritas assiste, si firma un protocollo e si definiscono compiti e responsabilità. La comunità può intervenire anche sulle esigenze scolastiche, sulle emergenze sanitarie, su quelle ricreative o sociali. Non quelle dei rapporti con le istituzione che rimangono a carico della Caritas”.
Ed oltre a questo intervento?
“Vi è quello di tipo per così dire tradizionale. Cioè l’accoglienza di quanti giungono da noi rispetto ai quali non facciamo distinzione tra regolari e irregolari. Per noi chiunque arriva, in quanto persona, è degna di essere accolta. Per renderli più chiaro questo concetto cito come esempio l’esperienza della Missione Speranza e Carità di Biagio Conte. Biagio non chiede allo Stato alcun contributo economico specifico in materia e, pertanto, si rende libero di accogliere tutti alle condizioni che è in grado di assicurare. La conseguenza è che i suoi ospiti non godono certo dei servizi di cui alcuni immigrati godono in alberghi talvolta a tre o quattro stelle che abbiamo visto in televisione. Ma lui in compenso accoglie tutti. Tornando a noi: in concreto accogliamo anche chi è senza documenti, ma ci preoccupiamo anche di aiutarli nella loro regolarizzazione. Per cui la prima cosa che facciamo, anche per quelli accolti temporaneamente nelle parrocchie, è comunicare i loro dati anagrafici alla Polizia; dati che vengono rilevati attraverso le impronte digitali appena giungono al porto, prima ancora di sbarcare a terra”.

E con le istituzioni sul territorio che rapporti avete?
“Buoni e di grande collaborazione. Abbiamo anche distribuiti sul territorio centri di accoglienza temporanei convenzionati con la Prefettura dove vengono sistemati i migranti appena giungono sulle banchine dei porti, prima che decidano di intraprendere un ulteriore viaggio verso nord. In questo caso garantiamo una prima accoglienza, certo in base a quello che possiamo offrire”.

E per questi avete sovvenzioni statali?
“Sono previste, ma da tempo in molte Diocesi siciliane si è deciso di non utilizzarle”.
Qualcuno dice perché non sopportate i controlli.
“Non è vero. I controlli sono positivi e ben vengano per evitare le ruberie. Ma la Caritas lavora col cuore, prima che per i soldi. Facciamo fronte a tutto ciò innanzitutto con i proventi dell’8 per mille e poi con la generosità degli italiani che in questi frangenti ha raggiunto dimensioni impensabili. Non dimentichiamo che la Caritas c’è in tutte le parrocchie e quindi un minimo di assistenza è offerto a tutti”.

Un’altra accusa che si muove è che a forza di aiutare gli immigrati si dimenticano gli italiani. Cosa risponde?
“Il sostegno ai nostri confratelli italiani non è diminuito in questi anni, anche se il loro numero è aumentato. Aiutare gli stranieri aiuta a comprendere meglio le ragione dell’aiuto ai residenti. C’è una frase che ha detto mons. Corrado Lorefice, nuovo arcivescovo di Palermo, che esprime bene questo concetto. Ha detto: “La nostra stessa carne è profuga”. E’ lo stesso che afferma il Papa nel suo Messaggio quando spiega che la risposta del Vangelo è la Misericordia, perché dono di Dio rivelato nel Figlio. E poi aggiunge: “…la misericordia ricevuta da Dio, infatti, suscita sentimenti di gioiosa gratitudine per la speranza che ci ha aperto il mistero della redenzione nel sangue di Cristo. Essa, poi, alimenta e irrobustisce la solidarietà verso il prossimo come esigenza di risposta all’amore gratuito di Dio” e poi aggiunge una frase molto efficace: “L’ospitalità, infatti, vive del dare e del ricevere”. Però bisogna aggiungere una cosa”.
Che cosa?
“Che, e riprendo quanto dice papa Francesco, bisogna intervenire anche nei paesi da cui fuggono queste persone, perché è loro primario diritto rimanere lì dove sono nate e vissute. Tra l’altro, come ampiamente dimostrato, ciò consentirebbe minori costi nell’assistenza e più efficacia nei risultati. In molti hanno sostenuto che per esempio individuare un cordone umanitario con la Siria sarebbe stato meglio che accogliere i siriani dopo estenuati e rischiosi viaggi. Questo andrebbe fatto anche per la Libia”.

Vi è poi il problema della convivenza e integrazione nel nostro Paese che desta più di una preoccupazione. E’ giusta una accoglienza senza se e senza ma?
“Noi siamo Chiesa e non facciamo distinzioni né di religioni né di condizioni economiche. Io guardo il povero e in lui vedo il volto di Cristo. Quando la Caritas va all’estero non guarda certo la religione o la provenienza di chi assiste. Non chiediamo l’integrazione alla nostra religione. Però chiediamo agli immigrati di rispettare le leggi dello Stato lì dove si trovano. L’integrazione è innanzitutto rispetto reciproco, rispetto delle leggi e delle tradizioni, nostre e loro”.
Ma questo affermato a parole non funziona automaticamente nei fatti. E fatti gravi continuano ad accadere, come a Capodanno in Germania.
“Chi giunge in Europa deve sapere che troverà una situazione diversa da quella che ha lasciato, non solo perché c’è più benessere, ma perché ci sono più regole da rispettare. E la prima tra queste regole è la maggiore libertà di cui godiamo tutti, uomini e donne. Certo noi dobbiamo rispettare le loro usanze, così come loro le nostre. Ma dobbiamo tener conto, loro e noi, che questi percorsi sono lunghi e richiedono impegno e disponibilità Non possiamo pensare di poter raggiungere tutti gli obiettivi in poco tempo. D’altra parte anche noi abbiamo impegnato anni e talvolta decenni per raggiungere conquiste che oggi ai più giovani paiono ovvie e scontate. Ci vorranno generazione perché si affermi una mentalità diversa. Ma solo lavorando sull’integrazione si potrà evitare il rischio dell’integralismo. Anche la democrazia può diventare, se mal gestita una imposizione di una minoranza sulla maggioranza.”

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