di Nino Caleca
già componente del Consiglio di giustizia amministrativa
L’approssimarsi del 23 maggio, data divenuta momento di ricordo civile, sollecita una riflessione.
Riportano le cronache che nel processo a carico della famiglia mafiosa di Tommaso Natale sono state individuate tante vittime del pizzo, ma un solo commerciante si è costituito parte civile.
Stesso scenario si ripete nei numerosi altri processi in corso di celebrazione.
Il segnale è inquietante: si continua a pagare il pizzo, non ci si ribella e ci si astiene dal denunciare gli estortori. Matura la netta sensazione che nella nostra società, accanto alla sempre attiva “borghesia mafiosa”, abbia ripreso vigore in tutte le classi sociali un silente soggiacere alla ineluttabile “contiguità
soggiacente” a “cosa nostra”. Come se pagare il pizzo fosse destino per questa terra che non riesce a scrollarsi di dosso il peso nefasto del crimine mafioso. Tra l’altro, pagare il pizzo non integra, di per sé, reato per il nostro codice penale.
Questa sorta di “quiete della non speranza” costituisce l’orizzonte in cui opera la “borghesia mafiosa” che dietro forme apparentemente civili occulta una compiacenza con “cosa nostra” che si concretizza in patti scellerati nel campo dell’economia e della politica.
Eppure la silente “contiguità soggiacente”, e la sua pericolosità, è stata più volte ben descritta dalle sentenze del Consiglio di Stato e dal Consiglio di giustizia amministrativa della Regione siciliana.
Sulla “contiguità soggiacente” la mafia edifica il proprio criminale potere: la mafia, per condurre le sue lucrose attività economiche nel mondo delle pubbliche commesse e della politica, non si vale solo di soggetti organici o affiliati ad essa, ma anche e sempre più spesso di soggetti compiacenti, cooperanti, collaboranti, nelle più varie forme e qualifiche societarie, sia attivamente, per interesse, economico, politico o amministrativo, che passivamente, per omertà o, non ultimo, per il timore della sopravvivenza propria e della propria impresa.
Chi paga il pizzo e non denuncia si dimostra proclive a ricercare modalità per convivere con l’assoggettamento al controllo delinquenziale del territorio, il cui predominio viene così sostanzialmente accettato e, va detto con chiarezza, (anche involontariamente) favorito e agevolato del dispiegamento della sua
forza intimidatrice di controllo del territorio.
Scriveva il Consiglio di giustizia amministrative nella sentenza n. 1142 del 2022: “Il paradigma immunologico che la società deve coltivare contro l’alterità della criminalità mafiosa non è compatibile con la contiguità soggiacente dell’operatore economico che si sottomette all’estorsione e, in un secondo momento, accetta la sanzione penale pur di non collaborare con le forze di polizia”.
Si è consapevoli che questo convincimento dell’ineluttabilità del pizzo possa trovare ragione negli sciagurati errori e crimini commessi da soggetti che si ergevano numi dell’antimafia, ma è il momento di metabolizzare anche quegli errori, di apprendere la lezione che il passato ha inferto al movimento antimafia e riprendere le fila di una lotta alla mafia che non può subire tentennamenti.
Gli operatori economici devono sapere che lo Stato oggi, anche per i duri colpi inferti all’area militare della mafia, è più forte del crimine organizzato ed è in grado di garantire l’operatore economico che non si sottomette al ricatto mafioso.
Il pizzo non è un destino, ma, ormai, è una scellerata scelta, magari di comodo, nel convincimento di vivere tranquillo e senza timori. Non è cosi: pagando il pizzo e non denunciando si fortifica, anche involontariamente, il lugubre poter della mafia.
È tempo, anche nei processi penali, di riprendere il cammino, di tornare a denunciare, di tornare a costituirsi parte civile, di far sentire la presenza, anche in quella simbolica sede, della società che si ribella al crimine mafioso che offusca le speranze di ripresa di questa nostra terra.






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