“Era la mia prima gravidanza. Ho fatto il viaggio da sola, speravo in un futuro migliore per me e per mio figlio. Ma lui adesso non c’è più. Non ho avuto nemmeno la possibilità di abbracciarlo…”.

Tra le lacrime e ancora sotto choc, chiede di non aggiungere altro Claudelle, la ragazza di 28 anni, originaria del Camerun che sabato scorso ha partorito su una carretta al largo di Lampedusa un neonato morto subito dopo.

Un viaggio lunghissimo e doloroso, con un epilogo tragico. Nonostante fosse incinta Claudelle ha sfidato il deserto per fuggire dalla fame e dalla miseria. E quando era ormai a poca distanza dalla sua nuova vita ha vissuto la più grande gioia e il più grande dolore per una mamma: la nascita e la morte del suo bambino.

La migrante, che ha partorito tra le onde del mar Mediterraneo aiutata dai compagni di viaggio, adesso è in un letto del reparto di ginecologia dell’ospedale Civico diretto da Antonio Maiorana, coccolata dai medici e dagli infermieri. Quando è sbarcata, con in braccio il cadavere del figlioletto, madre e figlio erano ancora legati dal cordone ombelicale e la donna non aveva espulso per intero la placenta. Ecco perché si è reso necessario il suo trasferimento in ospedale.

“La donna sta bene per quanto riguarda lo stato di salute. L’abbiamo rifocillata, alimentata e curata dandole tutta l’assistenza possibile. Abbiamo risolto tutta una serie di problemi legati al parto avvenuto in condizioni non adeguate – spiega il primario – Le ho parlato in inglese e le ho spiegato quali sono le sue condizioni di salute”.

L’aspetto psicologico di quanto è accaduto sarà affrontato già da domani, con un colloquio con una psicologa che cercherà di sostenere Claudelle in questi giorni. “Lei è perfettamente consapevole di quanto è successo – racconta Maiorana – . Anche per questo abbiamo evitato di parlare con lei di questo momento dolorosissimo”. La donna ha trovato in ospedale un ambiente accogliente che si è preso subito cura di lei. “E’ stata circondata da un’ondata di solidarietà da parte di noi tutti, medici ed infermieri – aggiunge il primario -. Non è la prima migrante che assistiamo nel reparto dopo un lungo viaggio e una lunga traversata. Quello che posso dire, in base alla mia esperienza, è che si tratta di persone che hanno una grande dignità”.