Torno a casa e svuoto lo zaino: i jeans sporchi e forati dal vetro, una macchia di sangue di chissà chi sulle scarpe da tennis, le medicine che ho comprato la scorsa notte in farmacia. Guardo ancora sgomenta le impronte delle scarpe sul retro della mia maglia. Non so quanti miei “fratelli juventini” mi siano passati sopra la schiena. Mi hanno calpestata dopo avermi travolta, mentre una mandria nel panico fuggiva da piazza San Carlo.

Ero a Torino con alcuni colleghi e amici, tifosi delle Juventus. Volevamo guardare la finale di Champions e sentirci uniti nello sport e nella fede calcistica, speravamo in una festa. Non è stata una festa di sport. Non è stata una festa di società. Non è stata una festa. È stato uno dei momenti peggiori della mia vita.

Guardavo il maxischermo dalla parte sinistra della piazza, altezza centrale, di fianco al civico 183, sotto i portici. Era il riferimento per ritrovarci in gruppo, nel caso in cui qualcuno si fosse perso. Quando siamo arrivati in piazza sono rimasta sorpresa da tutta quella gente, dall’enorme quantità di bottiglie di birra che i ragazzi tiravano fuori dagli zaini, da qualche ubriaco che vagolava tra la folla cantando qualche coro. Troppa gente oltre quelle due transenne. E quando le abbiamo superate nessuno ci ha controllato borse o zaini. Anche io avevo in borsa una mini lattina di coca-cola. Ma abbiamo passato le transenne di ingresso. Difficile districarsi tra la calca e trovare una posizione buona per guardare la partita. Mi aveva rasserenata guardare quei bambini sulle spalle dei giovani genitori tifosi, o notare quante donne, giovani e anche anziane si stringevano a me poco prima del calcio d’inizio. Eppure guardando qualche deficiente che si era arrampicato sul cavallo della piazza, ho pensato “potrebbero farsi male, perché non li controllano e gli impongono di scendere?”. Due ragazzi erano anche saliti sul palo della luce che avevo praticamente davanti. Si facevano scudo con quegli striscioni verticali che pubblicizzano il Salone dell’auto di Torino. E anche guardando loro ho pensato “ma sanno che per guardare questa che è solo una partita stanno rischiando di farsi male? Ma ne vale la pena?”. No, non ne valeva la pena.

Quando mancavano pochi minuti alla fine della partita, un botto e un ronzio. Ho talmente tanta confusione in testa che non saprei giurare quale rumore sia venuto prima dell’altro. Sembrava il ronzio di uno sciame. E la mandria impazzita che corre lontana dal maxischermo e mi travolge. Il panico attorno e il panico in me. Ho voltato le spalle per seguire la direzione della corsa, ma dopo nemmeno due passi sono stata scaraventata a terra. Mi hanno corso addosso. Mi sentivo soffocare dai passi che sentivo sulla schiena, soffocare dal terrore del torace schiacciato. Ho subito portato le mani a coprire viso e testa. Ero rannicchiata di fianco e sentivo i vetri rompersi tra un piede e l’altro che mi sorpassava le spalle e la testa. Urla, pianti e sirene. Ho temuto di morire. Le mie dita davanti agli occhi e l’inspiegabile idea di sfilarmi gli occhiali, temevo si rompessero i vetri e speravo ancora di tornare a vedere.

Appena sono riuscita al alzarmi la piazza era un campo di guerra. Chiazze di sangue per terra e sui pali, scarpe abbandonate e perse nella corsa, vetri rotti e maglie sporche e insanguinate, zaini e borse disseminati. Bambini a piedi nudi che correvano sotto i portici, urla di donne disperate e sofferenti. Volevo scappare anche io, da non so quale nemico, da non so quale pericolo. Gli occhiali infilati nella borsetta a tracolla, la vista offuscata e la corsa sotto i portici, per mettermi spalle al muro, arresa al panico. Volevo poter guardare e capire. Ma guardavo la confusione e non capivo. Spalle al muro come me, una donna seduta a terra con le mani piene di sangue, accanto un ragazzo dai capelli rossi tremava come una foglia e mi ha afferrato la mano, urlandomi in faccia “cosa è successo? Ho paura cazzo ho paura!” mi ha scatenato un attacco d’ansia. Si urlava “attentato”, crederci era immediato.

Ad un metro da me, ancora spaesato, un mio collega. Ci siamo tenuti le mani. Spalle al muro. Un viso familiare in mezzo al terrore. Tremavo. Ho afferrato il cellulare. “Sono viva, sono viva, avvisa mia madre ti prego! Sono viva!”, gridavo io che temevo ancora per la mia vita. “Che succede?? Che succede?”, sento rispondere dalla voce del cuore. “Non lo so, ho paura ma sono viva! Avvisa mia madre!”. Non sapevo che notizie erano già diffuse da tv e web. Essere viva mi sembrava già una notizia.

Scappati via, ancora a correre. Mi tenevo adiacente al muro, per sentirmi parata. Sono entrata in un atrio. Era buio, c’era un’impalcatura e una rete rossa di lavori in corso. L’atrio dava su un’altra traversa, ma anche lì la gente caricava in corsa scappando da chissà cosa. Non ho contezza del tempo che sia trascorso tra il ronzio e il boato iniziale prima della folla che corre. Non so quanto sono stata a terra a sentirmi calpestare. Non mi rendo conto ancora di quanto tempo io abbia trascorso a correre a fianco del mio collega, cercando di raggiungere la macchina parcheggiata tra piazza Cavour e via Andrea Provana. Lo ricordo a memoria quell’incrocio introvabile, mi sembrava distare miglia dalla piazza del terrore. I vigili agli incroci non sono riusciti ad indicarci la direzione giusta e hanno fatto allungare la nostra fuga spaesata. Ad ogni incrocio ancora urla e gente in lacrime: “Cosa è successo? Cosa è successo?”, “Non lo so, un petardo, una bomba in uno zaino”, si sentiva per strada. Feriti e zoppicanti a cercare rifugio. Le saracinesche di qualche locale abbassate facevano da scudo alle paure di chi si era barricato dentro. E io ancora scappando non capivo quando mi sarei potuta ritenere in tana.

Non mi sono accorta subito del gomito sanguinante del braccio graffiato. Colavo sangue e correvo, senza il tempo di sentire il dolore. Ma appena ferma ad aspettare di radunarci in gruppo alla macchina, ho iniziato a sentire le botte alle spalle, alle ginocchia e alla schiena. Il dolore si faceva più intenso. La lunga coda alla farmacia notturna mi è sembrata spiraglio di civiltà. Paradossale oasi nel panico. Il tempo di scappare pareva finito. Toccava medicarsi.