Dalla start up all’ancestrale richiamo del mattone è stato un attimo. Con l’accusa di malversazione in concorso, Giovanni Maria De Lisi, Ceo di Greenrail è stato condannato in primo grado dal Tribunale di Roma a due anni di reclusione e alla confisca, in solido con altri due imputati, di beni sino al valore di 150 mila euro. I giudici sono riusciti a dimostrare –  in questo primo grado di giudizio – che, alla stregua di vecchi marpioni da Prima repubblica che fu, alcuni dei manager alla guida di Greenrail hanno ideato e attuato un progetto  per distrarre fondi del finanziamento europeo ricevuto per farsi la casa.

Greenrail, la startup nata per  il settore ferroviario

Eppure, all’inizio tutto sembrava filar liscio per Greenrail, start up che vede in De Lisi il principale ideatore. La compagnia si presentava nel mercato dell’innovazione con propositi roboanti e una dotazione finanziaria – quasi tutta a carico della UE – abbastanza consistente.

Esigenze di famiglia scaricate sui conti di Bruxelles

“La nostra Mission è quella di trovare le soluzioni più efficienti e sostenibili nel settore ferroviario in grado di generare valore e ricchezza per il mercato, la società civile e l’ambiente”, questa la mission promessa da Greenrail, la startup costituita nel 2012 per rivoluzionare il settore delle traverse ferroviarie. In attesa di conquistare il mondo, però, una volta ottenuto il finanziamento europeo, la sostenibilità, l’economia circolare e difesa ambientale sono passati in secondo piano. E sono emerse debolezze personali, fragilità economiche e necessità familiari. Che si è pensato di scaricare sui conti di Bruxelles.

De Lisi condannato insieme alla sorella e al socio Emanuele Occhipinti

Questa volta, però, i controlli dell’Unione Europea hanno funzionato. Ed è arrivata così la sentenza di primo grado, del terzo collegio della seconda sezione penale del Tribunale di Roma che ha condannato Giovanni Maria De Lisi, la sorella Annalisa Del Lisi ed Emanuele Occhipinti a due anni di reclusione per malversazione in concorso. Inoltre, la Corte ha anche stabilito a carico dei tre la confisca dei beni per un valore corrispondente a 150 mila euro e al risarcimento in solido delle parti civile costituite, tra cui figura anche Eismea, il braccio operativo dell’Unione Europea per accompagnare le idee di innovazione sul mercato.  C’è da notare che la pena comminata dal Tribunale di Roma è risultata maggiormente afflittiva rispetto a quanto richiesto dall’accusa: la Procura aveva chiesta la condanna dei tre imputati a un anno e quattro mesi di reclusione.

Ma che cosa è successo? Per comprendere questa vicenda che evoca la sicula passione “verghiana” per la roba, bisogna riavvolgere il nastro dei eventi e raccontare la storia di un’azienda che nata su un progetto di business ambizioso e innovativo, sembra essersi arenata su piccole questioni familiari e sulla difficoltà di fare breccia nel mercato.

La business idea di Greenrail

La business idea di Greenrail consiste in un brevetto registrato per la creazione di una traversa ferroviaria costruita con una miscela ottenuta da pneumatici fuori uso e plastica riciclata e una struttura interna in calcestruzzo armato precompresso. Un prodotto che garantirebbe un cospicuo contributo al riutilizzo di rifiuti e materiali fuori uso, in una perfetta logica di circular economy.

Il progetto Greenrail, che ha sempre visto sulla tolda di comando il manager Giovanni Maria De Lisi, venne accolto con favore dalla Commissione Europea, ricevendo una sovvenzione a fondo perduto per un importo complessivo di poco superiore ai 2.29 milioni di euro. Insomma, Bruxelles aveva deciso di scommettere una fiche importante su un progetto la cui messa a terra complessiva sarebbe costato 3.273 milioni di euro e spicci. L’Unione ha erogato il finanziamento in tre tranches, tra l’ottobre del 2016 e il dicembre del 2018.

La società schermo per girare i soldi alla sorella

Una parte di quei soldi sarebbe stata utilizzata, come evidenzia la sentenza di primo grado, in modo non conforme a quanto previsto dal programma di finanziamento. Secondo la tesi dell’accusa, confermata dal collegio giudicante con la sentenza del 31 ottobre scorso, i tre imputati  hanno utilizzato 150 mila euro  (dei fondi ricevuti dall Ue, ndr) per consentire a Giovanni Maria De Lisi di procurare alla sorella Annalisa la provvista per l’acquisto di una casa a Bagheria.  Per ottenere questo risultato si “faceva apparire come dovuto dalla Greenrail alla Esmo srl (società di cui Emanuele Occhipinti era presidente del CdA) un importo complessivo di 302 mila euro”. L’importo venne effettivamente erogato a favore della Esmo, con cinque bonifici. S’è trattato della classica operazione schermo:   i 150 mila euro – scrivono i giudici – sono passati in realtà dalla cassa di Greenrail alla disponibilità di Giovanni Maria De Lisi. Il manager, attraverso lo schermo di Esmo srl, girava quei fondi sul conto personale di De Lisi, per venire impiegati, infine per comprare una casa a Bagheria a nome della sorella Annalisa.

Tra i documenti che hanno convinto la Corte a pronunciare la condanna, spicca una mail inviata da Giovanni De Lisi a Occhipinti ed ai soci di Greenrail. In quella mail, finita agli atti del processo, De Lisi scriveva .. “ho necessità di reperire 40 mila euro a stretto giro per una questione familiare, ed Emanuele mi ha espresso la sua disponibilità a prestarmeli, se Greenrail pagasse una fattura di acconto alla Esmo non di 33 mila euro più Iva, come prevista dal Piano SME, ma di 50 mila euro più iva”.

Secondo i  magistrati, quella mail  “chiarisce in maniera inequivocabile sia la situazione in cui versavano le casse della Greenrail a novembre del 2016, sia gli intendimenti di De Lisi, della sorella Annalisa e di Occhipinti”. Per l’accusa, nella mail si esplicita il pieno accordo tra De Lisi ed Occhipinti e viene anche evidenziato come nel tentativo di mettere a posto le carte, si prova a giustificare il maggior esborso con un contratto tra Greenrail ed Esmo, non previsto nel piano di finanziamento. Quel contratto, per i giudici è “fraudolento”.  Insomma, un classico pasticcio all’italiana, consumato in nome dell’innovazione.