“In questa terribile vicenda ho perso tutto. Ho perso mia moglie dalla quale mi sono separato, la mia famiglia, tanti amici che mi hanno abbandonato, le mie aziende. Dopo oltre 40 anni di lavoro in una mattinata sono rimasto senza casa, senza soldi, senza niente”. Giuseppe Ferdico, 69 anni, imprenditore palermitano a cui la corte d’appello di Caltanissetta con la revoca della confisca, ha restituito i beni stimati in 100 milioni di euro, si commuove ripercorrendo la sua vicenda giudiziaria durata 13 anni con sei gradi di giudizio. Assistito da anni dagli avvocati Roberto Tricoli e Luigi Miceli adesso cercherà di riacquisire l’azienda e magari rilanciarla.
“La mia azienda è stata dichiarata fallita dopo 8 mesi – aggiunge – I piccoli punti vendita sono stati chiusi, mentre il centro distribuzione e il centro commerciale a Carini sono stati affittati a prezzi più bassi. Nel giro di qualche anno quello che avevo costruito con tanto sacrificio è andato perso. Provo tanta rabbia e tanto dolore. Soprattutto dolore per quanto ho vissuto in questi anni di profonda solitudine”.
Per l’imprenditore la sua esperienza dovrebbe servire a cambiare l’approccio dei provvedimenti di prevenzione. “Ho ricevuto un primo avviso di garanzia nel 2006. Con i miei avvocati mi sono presentato in procura ed ero certo che avevo chiarito la mia posizione tanto che per ben 3 volte la procura ha chiesto l’archiviazione. Dopo due anni è arrivato l’imputazione coatta. E in primo grado sono stato assolto – aggiunge Ferdico – Sembrava finita. Poi sono arrivate le dichiarazioni dei collaboratori Galatolo e Fontana che mi tiravano di nuovo in ballo e in secondo grado sono stato condannato. Ma a poco a poco sono arrivate le sentenze dove i due pentiti veniva dichiarati non affidabili e la cassazione ha rimandato gli atti alla Corte d’Appello. Potevo attendere la prescrizione, ma ho voluto il processo perché io sono innocente. Ho solo lavorato dalla mattina alle 4 alle 22 ogni giorno. Ho costruito con le mie mani e quello della mia famiglia quello che possedevo. Purtroppo me lo hanno tolto senza aspettare la condanna penale”.
E’ un fiume in piena. “Mi spiega perché dovevo andare a chiedere i soldi alla mafia? Le banche mi concedevano soldi e investivano nelle mie aziende. Lo ha scritto anche il giudice. I tassi con i quali dovevo restituire i soldi ai mafiosi erano da usura. Che motivo avevo. Ero tripla A per le banche – aggiunge l’imprenditore – Dal momento in cui ho avuto le mie aziende sequestrate sono stati anni difficili, dolorosi. Sono rimasto solo. Ho cercato di lavorare per non restare chiuso in casa per non ammalarmi o buttarmi giù dal balcone. Io ero e sono innocente. Anche se ho vissuto anni a nascondermi per l’infamia di essere colluso con la mafia. Avevo 500 dipendenti. Tantissimi punti vendita e un centro di distribuzione. Io ho sempre saputo come fare per far funzionare un supermercato. E’ una cosa che ho imparato da giovane. La mia attività era un orologio. La finanza forse negli anni mi ha fatto solo un verbale, poi annullato dalla commissione tributaria”.
E’ tanto il dolore negli occhi di quest’uomo che ha visto distrutto il suo lavoro. “Fare l’imprenditore in questa terra è difficile. Sei solo. Io ai tempi dei Lo Piccolo camminavo con la pistola nell’auto. Temevo sempre una rapina o un agguato – conclude – Tante cose mi hanno provocato dolore in questi anni, come sapere che alcuni dipendenti che per me erano dei figli e anche qualche parente ha brindato quando hanno saputo del sequestro. Alla fine, però, a 69 anni posso uscire a testa alta da questa vita che tanta amarezza mi ha dato”.






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