Nega di aver fatto parte di Cosa nostra, respinge le accuse di stragi e omicidi, specie quello del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del pentito rapito, strangolato e sciolto nell’acido dopo 25 mesi di prigionia, smentisce di aver mai trafficato in droga (“ero benestante, mio padre faceva il mercante d’arte”), sostiene che la sua latitanza è terminata solo per colpa della malattia. In 70 pagine di interrogatorio, reso al procuratore di Palermo Maurizio de Lucia e all’aggiunto Paolo Guido Matteo, Messina Denaro non concede nulla ai magistrati.

Un verbale depositato nel giorno stesso in cui le condizioni di salute di Matteo Messina Denaro, in peggioramento, rendono necessario un ricovero all’ospedale dell’Aquila al reparto di chirurgia. L’ex latitante, paziente oncologico, nelle scorse settimane aveva subito un piccolo intervento ed era però rientrato nell’istituto di pena in giornata.

Nel lungo verbale il boss mette subito in chiaro: “Escludo di pentirmi”. Accetta di rispondere alle domande, ammette solo quel che non può negare: il possesso della pistola, la corrispondenza con Bernardo Provenzano, la vita da primula rossa scelta per difendersi dallo Stato che lo accusa “ingiustamente” e poco altro. “La mia vita non è che è stata sedentaria, è stata una vita molto avventurosa, movimentata”, dice. “Non sono uomo d’onore. Io mi sento uomo d’onore ma non come mafioso. Cosa nostra la conosco dai giornali”, spiega. “E lei non ha mai avuto a che fare Cosa nostra?”, gli chiedono i magistrati.

“Non lo so magari ci facevo affari e non sapevo che era Cosa nostra”, risponde ma sottolinea: “Non h commesso i reati di cui mi accusano: stragi e omicidi. Non c’entro nella maniera più assoluta. Poi mi possono accusare di qualsiasi cosa, io che ci posso fare”. Nella lista dei crimini mai commessi c’è anche il traffico di droga. “Vivo bene di mio, di famiglia. Mio padre era un mercante d’arte”, spiega parlando di Francesco Messina Denaro, padrino di Castelvetrano, morto da latitante e ritenuto uno dei fedelissimi dei corleonesi di Totò Riina.

“Io sono appassionato di storia antica da Roma a salire – racconta il capomafia ai magistrati – poi mio padre era mercante d’arte e dove sto io c’è Selinunte. E sulla cattura ha le idee chiare: “Non voglio fare il superuomo e nemmeno l’ arrogante, voi mi avete preso per la mia malattia”. Fin quando ha potuto, racconta , ha vissuto rinunciando alla tecnologia, sapendo che sarebbe stato un punto debole.

Ma poi ha dovuto cedere. Ai magistrati, per spiegare il cambio di passo sulla gestione della latitanza ha citato un proverbio ebraico: “se vuoi nascondere un albero piantalo in una foresta”. “Ora che ho la malattia e non posso stare più fuori e debbo ritornare qua…”, si è detto dopo aver scoperto di avere il tumore “allora – ha raccontato – mi metto a fare una vita da albero piantato in mezzo alla foresta, allora se voi dovete arrestare tutte le persone, che hanno avuto a che fare con me a Campobello, penso che dovete arrestare da due a tremila persone: di questo si tratta”. Su un punto il boss torna più volte: “Una cosa fatemela dire. Forse è la cosa a cui tengo di più. Io non sono un santo…ma con l’omicidio del bambino non c’entro”, spiega negando di aver partecipato al delitto del piccolo rapito per indurre il padre a ritrattare le accuse. Per Messina Denaro il responsabile fu Giovanni Brusca. Ma tiene anche a precisare che in un ‘audio choc diffuso nei mesi scorsi “non volevo offendere il giudice Falcone, non mi interessa… Il punto qual è? Che io ce l’avevo con quella metodologia di commemorazione”.

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