L’operazione Coffee Break che ha portato a sei arresti nasce dalle dichiarazioni di due collaboratori di giustizia, Vito Galatolo e Silvio Guerrera, che hanno fatto luce sull’attività di riciclaggio e il reimpiego dei soldi da parte della famiglia mafiosa dell’Acquasanta.

Oltre a due fratelli (nomi oscurati il 18 giugno 2019 su richiesta degli interessati perchè l’ordinanza di custodia cautelare è stata annullata dal tribunale del riesame) sono finiti in carcere il commercialista Filippo Lo Bianco, Gaetano Pensavecchia imprenditore del caffè, Michele Ferrante e Domenico Passarello. Le attività svolte hanno consentito di portare alla luce una vera e propria organizzazione finalizzata a gestire gli investimenti della famiglia mafiosa dei Fontana.

Due società che operano nel settore del commercio del caffè la Cafè Moka Special di Gaetano Pensavecchia e della Masai Caffè Srl, entrambe con sede e stabilimenti a Palermo sono state sequestrate. Secondo quanto sarebbe accertato dai finanzieri del nucleo di polizia economico e finanziario a partire dal 2014 sarebbero stati gestiti ingenti provviste dell’attività mafiosa della famiglia dedita, tra l’altro, alla “pratica della riscossione a tappeto delle attività estorsive nella zona di competenza”, fra i 150 e i 300 mila euro, nella società Cafè Moka Special di Gaetano Pensavecchia.

Soldi utilizzati per avviare una lucrosa attività di produzione e vendita di caffè e realizzare un nuovo impianto produttivo in zona Partanna Mondello. “Gaetano Pensavecchia era consapevole del fatto che i principali  indagati – dice il comandante del nucleo di polizia economico finanziario della Guardia di Finanza Cosmo Virgilio – come diceva nelle conversazioni intercettate sarebbero rimasti “sempre soci” anche dopo la restituzione del capitale iniziale investito.

L’imprenditore dimostrava di essere perfettamente inserito nella logica mafiosa, tanto da spiegare che ancora oggi a Palermo ‘ogni zona ha il suo parrino’, nonché mostrando la disponibilità a contribuire nonostante fosse conscio della ‘natura mafiosa’ dell’azienda”. Nel corso di una conversazione intercettata, diceva che “la maledizione del Signore è che siamo in società con questi”, e si mostrava assai timoroso della possibilità che i cosiddetti “spioni” (cioè i collaboratori di giustizia) potessero parlare della sua attività illecita, senza che egli potesse avere una cosa sopra quale prestanome”.