Mentre a Palermo si formano code davanti all’ennesimo locale street food dal brand accattivante, in pieno centro città un cavallo crolla a terra stremato dal caldo. Succede di nuovo, come ogni estate. Le temperature salgono, l’asfalto brucia, ma le carrozze trainate da cavalli continuano a circolare come se fossimo nel 1800.

In quasi tutte le città italiane (e non solo), le carrozze sono sparite dalle strade: considerate anacronistiche, crudeli e incompatibili con la modernità. A Palermo, invece, resistono con ostinazione. Le trovi posteggiate in via Emerico Amari, in doppia fila accanto alle auto, con i loro gnuri — i cocchieri — seduti a fumare o a urlare ai passanti.

Dietro queste carrozze c’è un sistema antico, che si regge su cooperative familiari che tramandano la licenza da padre in figlio. Ma a pagare il prezzo di questa tradizione fuori dal tempo sono solo loro: i cavalli. Costretti a vivere in stalle anguste nel centro storico, trattati spesso in modo brutale, esposti al traffico caotico, all’inquinamento e al caldo estremo.

Il resto è un sottobosco che tutti conoscono ma che pochi hanno il coraggio di denunciare: molti “gnuri” – così si chiamano a Palermo i conduttori delle carrozze a cavallo – sono da anni noti per i loro legami con la criminalità organizzata palermitana. Le carrozze sono solo la punta dell’iceberg di un sistema che comprende anche le corse clandestine di cavalli, estorsioni, intimidazioni. E chi osa parlarne, che sia giornalista o animalista, rischia.

E la politica? Tace. Perché? Perché queste cooperative rappresentano bacini elettorali, e gli gnuri fanno paura. Perché in questa città chi grida più forte spesso ottiene silenzio e impunità.

Ma la verità è chiara: gli gnuri non sono forse una delle vergogne di Palermo, in ogni caso non sono l’unica. M chi fa uso dei loro servizi, chi sale ancora su quelle carrozze facendo finta di nulla, è complice di una crudeltà medievale, di un sistema marcio, di una città che troppo spesso accetta l’inaccettabile.

È ora di dire basta. Non c’è turismo, non c’è folklore, non c’è tradizione che giustifichi la sofferenza di un animale. E non c’è voto che possa valere il silenzio di fronte a questa barbarie.