“Le avventure di Pinocchio – Storia di un burattino” è senz’altro tra i migliori romanzi italiani in assoluto. E anche quello che ha suscitato e continua a suscitare, tra i suoi cultori, il dibattito più vivace. Romanzo pedagogico, romanzo di formazione, romanzo picaresco, romanzo satirico?

Tante le interpretazioni di un romanzo scritto per ragazzi ma anche per gli adulti, ricco come pochi di richiami allusivi. Al punto che sono state proposte diverse e controverse letture: da quella in chiave cattolica (si legga il saggio “Contro Maestro Ciliegia” del cardinale Biffi, Jaca Book, 2012) a quella in chiave massonica.

Da ultimo riaccende le discussioni sul capolavoro di Collodi una casa editrice indipendente palermitana, “il Palindromo”, pubblicando “Pinocchio. La storia di un burattino” a cura di Salvatore Ferlita, docente di Letteratura italiana contemporanea alla Kore di Enna e collaboratore del quotidiano “la Repubblica”.

Le riaccende perché il romanzo dato alle stampe da “il Palindromo” è quello della prima stesura, apparso in otto puntate nel 1881 sul “ Giornale dei bambini” col titolo “La storia di un burattino” e con un finale che oggi appare sorprendente: Pinocchio muore impiccato sul ramo di una quercia. Finale per nulla rassicurante ma che, secondo Ferlita, ben si addice a quella che, nelle intenzioni dell’autore, sarebbe stata un’”anti-fiaba, dove sovente trionfa la cattiveria più spietata”.

Nella prima edizione di Pinocchio – osserva Ferlita nel saggio che accompagna il romanzo, “Il Pinocchio rimosso” – prevalgono le tinte forti e tenebrose tipiche di un romanzo che oggi definiremmo dark o, per ricorrere a una definizione più familiare e meno vaga, del terrore.

Letto sotto questa angolazione, alcune figure e ambienti del romanzo si rivelano nei loro aspetti sinistri: così la bambina coi capelli turchini che nella rivisitazione di Manganelli dell’opera di Collodi (“Pinocchio: un libro parallelo”, Adelphi, 2002), richiamata da Ferlita, è “la morta signora dei morti”, come pure la sua abitazione che “è il deposito della morte”.

Roba da far rabbrividire, da letteratura nera, altro che favola condita di morale. A ben leggere la prima edizione di Pinocchio – nota Ferlita – gli uomini che la popolano sono tutti o quasi tutti cattivi, mentre il cattivo per eccellenza, Mangiafuoco, ha sprazzi di umanità, a conferma dell’atipicità di una fiaba null’affatto ispirata dal buonismo.

Quel finale però deluse i giovanissimi lettori del “Giornale dei bambini”, che reclamarono la continuazione della storia. Così almeno si racconta. Sicché la narrazione delle mascalzonate di Pinocchio proseguì a più riprese su quel foglio, per poi essere pubblicate, nel 1883 dalla Libreria Editrice Felice Paggi, in un libro intitolato “Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino”. Con un finale, come sappiamo, ben diverso: Pinocchio, diventato buono, da burattino si trasforma in un bambino in carne e ossa.

Ma proprio sul finale alcuni studiosi di Collodi e di Pinocchio hanno qualcosa da ridire. Così Daniela Marceschi che ne “Il naso corto. Una rilettura delle Avventure di Pinocchio” (Edb, 2016) osserva come la comune interpretazione, nell’avallare la metamorfosi del burattino trasgressivo in un bambino conformista, mortifica la vitalità del personaggio collodiano.

Secondo la Marceschi, Pinocchio non diventerà mai un bambino “buono”: resterà sempre il “monellaccio” pronto a disubbidire e a violare le regole. A rivelarlo sarebbero il punto esclamativo e i puntini di sospensione che seguono la frase che Pinocchio esclama, alla fine del romanzo, mentre guarda la sua sagoma di legno: “Com’ero buffo, quand’ero un burattino! E come ora son contento di esser diventato un bambino perbene!…”.

Quel punto esclamativo e quei puntini di sospensione, per la Marceschi che conosce bene l’uso della punteggiatura in Collodi, sono come uno strizzare l’occhio ai lettori, un cenno d’intesa che li rincuora sulla sua immutabile natura ribelle. Insomma, vecchia edizione versione romanzo del terrore, ultima edizione apparentemente “edulcorata”, a detta di chi se ne intende, la storia di Pinocchio è tutto meno che una favola banalmente puritana.

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