Percepiva illecitamente il reddito di cittadinanza pur avendo introiti derivanti da attività online di natura erotica. Protagonista della vicenda è una quarantenne, residente nella provincia di Palermo. La donna è finita al centro di un’indagine condotta dalla polizia in collaborazione con la Procura di Termini Imerese: le è stato contestato di aver incassato indebitamente il reddito di cittadinanza omettendo di dichiarare altre fonti di reddito.

Le indagini

Secondo quanto accertato nel corso delle indagini, la 40enne avrebbe deliberatamente nascosto consistenti introiti ottenuti tramite esibizioni a sfondo sessuale trasmesse in diretta su piattaforme web e attraverso la vendita di contenuti digitali pornografici, come foto e video. L’attività investigativa ha rivelato un sofisticato sistema di guadagno, costruito sfruttando la visibilità e la monetizzazione offerta da determinati siti dedicati all’intrattenimento per adulti.

Le forze dell’ordine hanno evidenziato che la donna, pur ottenendo compensi regolari attraverso queste prestazioni, non avrebbe mai dichiarato tali entrate agli enti preposti, mantenendo così l’accesso al sussidio economico statale, pur non avendone più i requisiti. In totale, i proventi accumulati nel periodo sotto esame supererebbero i 17.000 euro, guadagnati in circa due anni di attività online.

Truffa sul reddito di cittadinanza, assolto giovane nel Palermitano

È stato assolto B.L., il giovane finito a processo con l’accusa di aver percepito indebitamente il reddito di cittadinanza omettendo di dichiarare un’attività lavorativa che avrebbe svolto presso due palestre locali. La decisione è stata pronunciata dal Tribunale di Termini Imerese, che ha accolto la tesi dell’avvocato difensore Fabio Sciascia.

Secondo la ricostruzione dell’accusa, il giovane  avrebbe continuato a ricevere il sussidio statale pur lavorando come istruttore di fitness. A sostegno della tesi accusatoria erano state raccolte numerose testimonianze di clienti delle palestre che avevano dichiarato di aver versato la quota mensile direttamente all’imputato e di essere seguiti personalmente da lui durante gli allenamenti.

Nel corso del dibattimento, la difesa ha ribadito che non c’era alcun un contratto di lavoro tra l’imputato e le palestre, nonché dimostrando che le somme versate dai clienti non costituivano un compenso diretto, ma venivano interamente trasferite all’associazione sportiva che gestita dalla madre dell’imputato.

“Il processo era basato su ipotesi, senza concreti riscontri – ha dichiarato l’avvocato Fabio Sciascia –. Siamo soddisfatti per una sentenza che ha ristabilito la verità dei fatti, riconoscendo l’assenza di dolo e la correttezza del comportamento del mio assistito”.