La seconda puntata di Testa a Testa , il talk show condotto da Gaetano Mineo e prodotto da Sicilia on demand, ha affrontato uno dei temi più delicati del momento: la giustizia italiana e la controversa riforma costituzionale in discussione al Parlamento. Protagonisti del dibattito due figure di spicco del mondo giudiziario: Bartolomeo Romano, docente di diritto penale ed ex membro del Consiglio Superiore della Magistratura (CSM), e Giuseppe Tango, giudice e presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati di Palermo. Il titolo della puntata, “Giustizia sotto processo: la riforma che divide” , non lascia spazio a dubbi: il sistema è messo alla prova, e le opinioni su come migliorarlo sono molto distanti.
Lo stato di salute della giustizia: un paziente ancora debole
Il confronto si apre con una fotografia impietosa dello stato della giustizia nel nostro Paese. Secondo Romano, l’Italia sta faticosamente uscendo da anni di stallo grazie alle pressioni del PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), ma i tempi lunghi dei processi restano un problema drammatico. “Da uno stato comatoso siamo passati a una lunga convalescenza”, sintetizza. Una situazione che preoccupa l’Europa, che ha imposto all’Italia obiettivi precisi per ridurre l’arretrato, pena il blocco di finanziamenti.
Tango, però, va oltre: il problema non è solo la lentezza, ma anche la carenza di risorse umane. In Italia ci sono solo 0,8 giudici ogni 100mila abitanti, contro i 17,6 della media europea. I pubblici ministeri sono appena 3,8 per lo stesso numero di cittadini, mentre in Europa sono 11,6. Risultato? Ogni pm italiano gestisce in media 1.192 casi all’anno, contro i 204 di un collega europeo. “Una situazione insostenibile – conclude Tango – che mina la fiducia dei cittadini”.
Troppi ricorsi, pochi strumenti: c’è troppa domanda di giustizia o si gestisce male?
Un altro punto caldo del dibattito riguarda l’eccessiva domanda di giustizia. Romano sostiene che molte cause che arrivano fino alla Cassazione potrebbero essere evitate, grazie a strumenti alternativi come la mediazione civile. Propone inoltre una revisione radicale dei reati penali, oggi circa 7.500, molti dei quali poco rilevanti. “Basta con le indagini superflue. Serve più filtro”, dice Romano.
Tango concorda sul sovraccarico, ma ribalta il discorso: il problema non è solo la quantità, ma la mancanza di personale. Gli ufficiali giudiziari, gli assistenti introdotti con il PNRR rischiano di non essere stabilizzati, vanificando anni di formazione. Lui stesso, con 1.600 cause da gestire e 400 sentenze redatte in un anno, racconta una realtà spossante. “Senza risorse – chiarisce – non si va da nessuna parte”.
La riforma costituzionale: soluzione o specchietto per le allodole?
Il cuore del confronto è inevitabilmente la riforma costituzionale della giustizia. Un tema divisivo, su cui Romano e Tango esprimono posizioni opposte. Tango attacca duramente la proposta, definendola un fuoco di paglia. “Nemmeno il ministro Nordio e l’onorevole Bongiorno negano che questa riforma non accorcerà di un giorno i tempi dei processi”, precisa. Per lui, concentrarsi sulla separazione delle carriere e sulla riforma del CSM significa perdere di vista il vero problema: la velocità dei procedimenti.
Romano invece difende la riforma, soprattutto per quanto riguarda la valutazione delle
performance dei magistrati. Racconta di quando era al CSM e notava come quasi tutti i
giudici fossero “piattamente positivi” nelle loro valutazioni. “Non tutti scrivono 400 sentenze
l’anno come fa Tango”, ironizza, proponendo criteri più rigorosi, come la resistenza delle
sentenze in appello, per premiare chi lavora meglio.
Separare le carriere: garanzia di efficienza o rischio di deriva accusatoria?
Uno dei nodi più spinosi della riforma è la separazione tra giudici e pubblici ministeri. Romano la sostiene con convinzione, ispirandosi ai modelli anglosassoni, dove il pm è un accusatore e il giudice rimane neutro. “Così si rende il lavoro del pm più controllabile e responsabile”, spiega.
Tango, però, non ci sta. Difende il modello italiano, in cui pm e giudici appartengono allo stesso ordine e condividono una cultura di imparzialità. “Il pm italiano cerca prove a favore e a sfavore dell’indagato – chiarisce – diversamente dal sistema americano”. Per lui, separare le carriere rischia di trasformare il pm in un semplice accusatore, con il rischio di vedere l’assoluzione come una sconfitta e la condanna come una vittoria, snaturando il ruolo previsto dalla Costituzione.
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