PALERMO – Con lo sviluppo tecnico-scientifico della seconda metà del secolo scorso la medicina si è sempre più identificata con il curare, più che con il prendersi cura della persona. All’interno di questo scenario, la comunicazione è stata utilizzata per gli obiettivi specifici di diagnosi e terapia della malattia.

A partire dagli anni Ottanta la medicina tradizionale centrata sulla malattia è stata ampliata da alcune novità concettuali e operative che hanno portato al modello di medicina centrata sul paziente (Approccio biopsicosociale). Attraverso l’introduzione del concetto di agenda del paziente è stato aggiunto, accanto agli obiettivi tradizionali di diagnosi e terapia, l’obiettivo della comprensione del vissuto di malattia (illness) di ogni singolo paziente. La comprensione della prospettiva del malato richiede al personale sanitario un uso professionale e consapevole della comunicazione e della relazione, senza le quali i contenuti dell’agenda rimarrebbero sconosciuti e ignorati, con possibili conseguenze sul piano relazionale, oltre che sanitario.

La comunicazione con il paziente non può essere lasciata alla spontaneità e allo spontaneismo. Lo sanno bene in Samo Onlus, perché non si può pensare di gestirla attraverso le competenze sociali della comunicazione quotidiana, né di acquisirla “automaticamente” con il passare degli anni e/o con l’“esperienza” lavorativa. In quanto comunicazione professionale, segue regole diverse da quella quotidiana e necessita di abilità tecniche che vanno adeguatamente apprese e allenate.

La comunicazione riveste un ruolo imprescindibile sia per l’umanizzazione delle cure, sia per instaurare la fiducia necessaria alla costruzione dell’alleanza terapeutica e all’aderenza ai trattamenti.

“La comunicazione sanitaria quindi in medicina, in oncologia nello specifico e ancora più nello specifico nelle cure palliative, è una comunicazione professionale che non ha niente a che vedere con la nostra capacità di comunicare nella vita sociale“. A spiegarlo è la dottoressa Maria Antonietta Annunziata, esperta nella comunicazione a livello sanitario. 

“Il problema è che gli operatori sanitari, proprio in quanto esseri umani che stanno nella vita sociale, tendono a portare nella vita professionale le modalità comunicative tipiche della vita quotidiana. Ma questo non funziona in questo modo perché la comunicazione in ambito sanitario richiede regole che sono diverse. La cosa che rende particolare la comunicazione professionale è, soprattutto, la condizione emotiva del paziente che si trova ad affrontare una malattia, una fase della vita con grosse preoccupazioni e paure rispetto al futuro. L’altro aspetto che la rende particolare – ha continuato la dottoressa Annunziata – è il fatto che l’operatore sanitario ha realmente un ruolo di responsabilità nei confronti del paziente, una responsabilità di cura che non è solo per il curare la malattia, ma è curare la persona“.

Quali sono le differenze tra la comunicazione giornaliera e quella con il paziente?

“Solitamente, nella comunicazione quotidiana diamo per scontato che le persone abbiano capito quello che diciamo. Questo, nella comunicazione professionale non ce lo possiamo permettere dobbiamo essere certi e dare testimonianza al paziente di aver capito quello che lui ha detto, ma dobbiamo essere anche sicuri e certi che il paziente abbia capito quello che noi gli stiamo dicendo. Per arrivare a relazioni che siano realmente terapeutiche quello che avviene all’interno del rapporto deve essere condiviso, nel senso che tutto quello che ci diciamo, le parole che passano nella comunicazione devono assumere per i due interlocutori lo stesso significato. Solitamente, l’essere umano quando ascolta tende sempre a dare il proprio significato a quello che ha sentito, ma non siamo certi che corrisponda esattamente al significato che gli voleva dare chi ha parlato. Quindi, questa verifica va fatta come va fatta la verifica che il paziente abbia capito quello che gli diciamo perché la situazione di confusione in cui spesso si trova, impedisce una piena comprensione. Se vogliamo che il paziente aderisca adeguatamente alle cure è importante che abbia capito – ha concluso la dottoressa Maria Antonietta Annunziata -. Se vogliamo che sia protagonista, che sia partecipe è importante che abbia capito cosa gli stiamo dicendo”.

L’approccio con il paziente

“L’approccio del fisioterapista è sempre più incalzante e determinante nelle cure palliative – ha spiegato Nicola Colletta, da anni fisioterapista per Samo -. Negli anni, da pochi accesso siamo passati a tanti accesso il paziente ha bisogno di essere assistito. C’è questo contatto diretto tra fisioterapista e paziente. Noi abbiamo dei protocolli lineari perché sono paziente molto sensibili, con metastasi ossee paziente che spesso troviamo a letto o su sedie a rotelle. Ci occupiamo anche di riabilitazione respiratoria, questo in base alle varie patologie che ha il paziente. Alla fine abbiamo sempre il massimo su questi pazienti. Il paziente è sempre ‘dinamico’, – ha confuso Nicola Colletta – oggi sta bene, discretamente bene, peggiora ha giornate si giornate. Sono delle sfaccettature del paziente, ecco perché nelle cure palliative il paziente al centro e un’equipe che gira attorno, il paziente come persona non come patologia, questa persona che viene assistita da queste equipe”.

L’empatia con il paziente

“L’approccio è fondamentale perché bisogna creare empatia con il paziente. Io, come operatrice sanitaria – ha raccontato Miriana Miserendino Oss di Samo – mi occupo dell’igiene e della cura della persona, quindi creare un rapporto confidenziale o comunque di intimità con il paziente è fondamentale perché si mette a nudo sia a livello emozionale, quindi se ha dolori e se ci sono situazioni particolari e in famiglia, sia a livello fisico perché dovendo effettuare l’igiene noi vediamo il paziente a 360°. Il nostro ruolo è un pochino delicato sotto tutti i punti di vista sia emozionale che pratico”.

Come si entra in empatia con il paziente che non vi conosce?

“Si cerca di sdrammatizzare o di distrarre il paziente dalla situazione che vive. Inizialmente con la presentazione, poi si chiede come sta, anche se può essere una domanda banale perché conosciamo la patologia; però anche a livello di umore – ha concluso Miriana Miserendino – può aiutarlo ad aprirsi e creare questa relazione tra una persona estranea che entra a casa in un contesto familiare che non conosce”.

La formazione continua 

“La comunicazione è fondamentale in tutti i campi della nostra vita. Credo che, nello specifico, la formazione vada mirata attraverso una formazione continua – ha spiegato Luigi Zancla presidente di Samo – , cosa che noi della Samo facciamo da danni. Il nostro personale deve ricevere formazione perché se non riceve formazione non ha un miglioramento costante. Noi puntiamo, non dico la perfezione perché la pressione non esiste, certamente a valorizzare il personale attraverso uno sforzo formativo che è fondamentale per il lavoro che il personale svolge”.

Quanto è importante cercare di raggiungere la perfezione?

“È fondamentale, ma le difficoltà sono tantissime perché non è soltanto il paziente che noi incontriamo. Incontriamo anche le famiglie e non tutte sono all’altezza di un’accoglienza positiva perché hanno diffidenza, perché non comprendono o non hanno quella cultura necessaria per ricevere una spiegazione. Quindi c’è una difficoltà ulteriore rispetto a quello che è il livello formativo per il nostro personale. Una cosa è essere formati professionalmente verso il paziente e le sue difficoltà, una cosa è essere pronti ad affrontare le difficoltà che nascono dalla non comprensione della nostra azione da parte delle famiglie”.

È più importante o difficile avere a che fare con il paziente o con le famiglie?

“È egualmente importante. Il paziente ricevere tutte le cure necessarie, noi questo lo facciamo ormai da 30 anni, ma, a volte, convincere le famiglie o per pregiudizio o per fatto culturale è complicato. Noi ce la mettiamo tutta e diciamo che al 99% ci riusciamo anche brillantemente”.