Michele Santoro, noto giornalista e conduttore telesiviso, in collegamento telefonico con Casa Minutella, il talk show condotto da Massimo Minutella su BlogSicilia.it, ha parlato delle conseguenze del suo ultimo libro, Nient’altro che la verità, con protagonista Maurizio Avola, killer della mafia con alle spalle 80 omicidi e che prese parte alla stagioni delle stragi.

Santoro ha spiegato che «il lavoro per questo libro è cominciato nel 2019 e il titolo riprende la formula che si pronuncia in tribunale quando si testimonia sotto giuramento con la scelta di Avola di parlare dopo avere perso tutti i privilegi dati dalla condizione di pentito».

Santoro ha poi attaccato chi ha criticato il libro senza averlo letto: «Chi ne parla, mi auguro che lo abbia prima letto. In moltissimi hanno preso la scia della mia popolarità per potere tornare a dire la loro opinione ma mi farebbe piacere se lo facessero a ragion veduta, citando le parti che più contestano», lamentando che oggi si dice che «cosa nostra fosse un’accozzaglia di poveracci con ordini che provenivano dall’alto».

AVOLA E IL PERIODO STRAGISTA

In collegamento Enrico Bellavia, giornalista de L’Espresso ed esperto di fatti di mafia: «Il libro è molto ben scritto: è convincente nel confronto tra Santoro e una persona che ha scelto la vita da killer che non si assolve ma racconta. È meno convincente quando Avola parla della Strage di via D’Amelio, affermando che è ‘inutile cercare i servizi segreti e altro ma tutto ha fatto solo cosa nostra’».

E Santoro ha incalzato così: «Io ho raccolto un racconto che ovviamente deve passare al vaglio della magistratura. Non esistono pentiti attendibili o inattendibili per definzione. Però, stanno succedendo cose incredibili attorno a questo libro. Come il caso della Procura di Caltanissetta che, prima ancora che il libro arrivasse nelle librerie, esercitando il diritto di cronaca, ha diffuso un comunicato, rimarcando l’inattendibilità di Avola. Non mi è mai successo di leggere una simile iniziativa della magistratura di questo tipo. Puoi prendere un racconto con il beneficio dell’inventario o vedere anche un’ipotesi di reato. Tra l’altro, quando si parla di depistaggio, ricordo che è un reato e che si compie quando un pubblico ufficiale imbecca un presunto testimone e gli fa dire cose per deviare le indagini. Ipotizzare un reato di questo tipo è molto grave. O hai le prove o stai zitto. Non è vero, poi, che Avola ha affermato che i servizi segreti non c’entrino con via D’Amelio ma nel garage in cui fu imbottita l’auto con l’esplosivo, non ce n’erano. Se qualcuno sa diversamente, lo dica e se ne assuma le responsabilità. Avola ha detto che in via D’Amelio ha agito cosa nostra e, se ci siano state compatibilità, non può saperlo perché era un elemento militare dell’organizzazione, non gestiva i rapporti di tipo politico e il libro non lo nega».

Bellavia, però, ha insistito: «La ricostruzione che Avola ha fatto della strage non mi convince. Ha introdotto una ricostruzione che sbatte con quella di Spatuzza e che arriva dopo un depistaggio acclarato». Ma Santoro non ci sta: «Non è vero. Spatuzza prende un’auto e la porta dentro a un garage. Ad imbottirla, poi, sono stat altre persone. Spatuzza ha dichiarato che c’era una persona che non conosceva. Non ha parlato di un agente. Tra l’altro a Spatuzza sono state mostrate centinaia di foto di agenti ma non ha riconosciuto nessuno. Spatuzza ha indicato semplicemente uno sconosciuto e Avola ha affermato che quello era un catanese che il pentito non aveva mai visto. Quindi, non c’è nessun conflitto, nessuna smentita».

Santoro, poi, mosso dalla domanda del giornalista Piero Messina, in studio, sulla necessità di perseguire la verità, ha detto: «Bisogna farlo non smarrendo i pilastri della ricerca: cosa nostra è un fenomeno importante della storia italiana che non si può ridurre a un’appendice dei servizi segreti. Se facciamo quest’operazione, allora non abbiamo capito nulla, dimenticando l’insegnamento di Giovanni Falcone», sottolineando che oggi andrebbero perseguiti i responsabili delle mancanze alla vigilia dell’uccisione di Paolo Borsellino: «Fu assegnata una scorta che non conosceva le strade per arrivare a casa della madre; il giudice arrivò per primo ma doveva essere al centro: si trovò solo al citofono; c’erano tre fila di auto non identificate o identificabilil; non ci fu una bonifica per capire se ci fosse la presenza di un’autobomba; tutte responsabilità dello Stato che non ha vigilato».

Anche Bellavia ha sottolineato di non credere che cosa nostra sia «eterodiretta ma, essendo una realtà che vive, pensa che ci sia stato un aiuto», prendendo come esempio Totò Riina «quando si riferisce, intercettato, ad altre realtà che hanno consentito di muoversi liberamente, con informazioni decisive. Ad esempio, qualcunò informò circa l’arrivo di Falcone a Punta Raisi a bordo di un aereo dei servizi segreti».

Santoro, dicendo di essere d’accordo con Bellavia, ha però sottolineato che «quello che io nego è che che ci sia un piano organico, un grande vecchio, un puparo. Cosa nostra è sufficientemente forte e cosciente. È chiaro che fa qualche favore a questo o a quello nell’ambito delle sue decisioni».

LA MAFIA OGGI

Santoro pensa che la mafia non sia morta ma lo è «una sua forma di organizzazione. È impossibile, però, che un’organizzazione possa sparire nel nulla. Esiste, si è confusa con il capitalismo globale e non è più identificabile come prima. C’era un tempo in cui un latitante aveva bisogno di denaro in contanti, oggi, invece, i soldi sono fluidi. La cosa grave è che non ne sappiamo più niente, gli inquirenti brancolano nel buio. Che fine ha fatto cosa nostra?».

Anche Bellavia sulla stessa scia: «Magari fosse un fatto storico. In realtà, è una morta certa idea di cosa nostra, quella corleonese con l’attacco frontale allo Stato. Oggi si è tornati alla pacifica convivenza con scambi di favori, informazioni e soldi. Cosa nostra non è morta e io ho anche dubbi sul fatto che il nuovo capo sia Matteo Messina Denaro perché c’è il pregiudizio che debba, per forza, essere un palermitano. Il ponte con gli Stati Uniti è vivo e i vincenti di oggi sono le famiglie perdenti di allora, con gli Inzerillo e i Gambino che sono tornati in libertà e che hanno mantenuto anche il 90% delle proprie risorse».

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