Il 12 gennaio del 1988, in via Alfredo Cesareo, due ragazzi su una vespa si avvicinavano ad una fiat 132 imbottigliata nel traffico ed aprivano il fuoco contro il suo guidatore; cinque colpi di 357 magnum, e quattro vanno a segno, sfondandogli la testa, e tappando per sempre la sua bocca. Si chiamavano Nino Galliano e Domenico Guglielmini, ed assieme a Domenico Ganci furono identificati (e più avanti condannati) quali membri del commando che pose fine alla vita di Giuseppe Insalaco, e che poi disordinatamente scapparono via a piedi abbandonando moto, caschi ed armi; il tutto mentre scendeva la sera su Palermo, ma la notte era già scesa da tempo su quell’ex sindaco democristiano, cresciuto sotto l’ala protettrice del Ministro Franco Restivo e avviato quale politico rodato dall’irresistibile ed irrefrenabile ascesa, che lo porterà in brevissimo tempo ad essere il primo cittadino di Palermo.
In quei turbolenti “cento giorni” al Comune, il giovane dc messo lì per tamponare le “irrequietudini” scatenati da quella lady di ferro contro la mafia, la pediatra Elda Pucci, sembrava dover seguire le direttive dall’alto ed obbedire, come fosse un soldato; qualcosa non va, si scatena in lui una forza che esplode dal suo interno e che forse aveva covato da anni; la possibilità di prendere in mano il comando per far vedere a tutti “chi è davvero Giuseppe Insalaco” e smettere di essere inteso o nominato con quel vezzeggiativo “Peppuccio”, che amici e nemici usavano per intenderne la sudditanza.
Primo tra i primi, e “più solo tra tutti i numeri” come titola uno dei capitoli del libro ormai concluso (dal titolo “Non uccidete quel morto”) che il giovane regista Sergio Ruffino ha scritto dedicando alla figura di Insalaco nell’agosto del 2010, per poi fermarsi a rivederlo e revisionarlo, aiutandosi con le video-interviste del documentario “I due volti di Palermo” che intanto portava avanti parallelamente, e le cui riprese sono iniziate già nel 2012 e volgono al termine in quest’ultimo mese.
Tra le numerosissime persone che Ruffino ha incontrato ed intervistato vi sono politici (come Leoluca Orlando, Elio Sanfilippo, Michele Figurelli, Simona Mafai, Nicola Ravidà, Aristide Gunnella), giornalisti (Saverio Lodato, Attilio Bolzoni, Ignazio Panzica, Michele Gambino) noti protagonisti delle forze dell’ordine di quegli anni (come Francesco Accordino e Saverio Montalbano), e ancora storici, avvocati, magistrati, protagonisti di movimenti civici e di impegno civile di quegli anni, ed amici e colleghi di Insalaco, ma anche semplici testimoni di aneddoti e storie fin’ora quasi del tutto sconosciute che, dopo 12 anni di lavoro, dovranno dare un’idea più conclusiva e completa della personalità dell’ex sindaco. Sergio Ruffino ha raccolto in questi anni documenti originali, molti dei quali difficili da reperire, tra dichiarazioni, deposizioni, anche le lettere anonime che arrivavano ad Insalaco e che lo minacciavano ogni volta che quel sindaco si permetteva di denunciare le connivenze mafiose al Comune di Palermo; ma anche ricostruito la vicenda e la personalità di Insalaco fin dalle sue origini di “segretario dai calzoni corti”.
“Era il 92, avevo 11 anni e si faceva un’intensa attività di laboratorio di impegno civile nelle scuole – racconta Ruffino – erano passati tre anni appena dalla morte di Insalaco e ricordo che ero a conoscenza di quasi tutte le vicende ed i delitti eccellenti: quando per la prima volta sento il suo nome per puro caso, già mi venne data quella risposta che seguirà negli anni avvenire: lascia perdere è controverso. E non capii da principio se si trattava dell’uomo o della storia. In quel momento dimenticai, ma l’idea di studiare la sua figura non morì lì, ed anni dopo, nel 2005, decisi di approfondire la vicenda.
Delle conturbanti e misteriose storie che si raccontano, alcuni hanno fondi di verità ma molte altre che circolavano attorno a quegli anni si sono rivelate inesatte, bufale gonfiate per creare ad ogni costo “il caso”.
Ed il “caso” c’è davvero e si chiama “Palermo”, perché parlando di Insalaco – continua il regista – non si può prescindere dalla città di quegli anni; Giuseppe Insalaco è l’emblema di quella città “sommersa” e fradicia, dai fili annodati e dai cavi elettrici scoperti, mi resi conto che era davvero un dramma in tre atti, come lo definiva Leonardo Sciascia all’epoca; e credo la morte civile peggiore che abbia fatto un uomo che, in fondo, abbia tentato di cambiare “le regole del gioco” a Palermo”. Credo anche che, nonostante “disordine e generosità”, dopo quanto ho letto e visto o toccato con mano, si debba davvero ridimensionare la figura di Giuseppe Insalaco, rimasto vittima di una “terra di mezzo” dove nessun palermitano ama dirsi passeggiare, mentre i più preferiscono schierarsi quali buoni e cattivi: elenchi apparenti, come quelli trovati tra le carte che il sindaco dei cento giorni ha lasciato a futura memoria (“da aprire soltanto in caso di fatti eccezionali”, preludendo alla sua morte) ma che di fatto testimoniano come a Palermo siamo tutti soggetto e oggetto, le etichette fanno solo comodo a noi come agli altri.
Oggi Insalaco è relegato nella “attesa perenne”; non se ne parla, si ha pudore, imbarazzo, disagio o anche rabbia per i troppi anni di dimenticanza: credo che la sua storia meriti di essere raccontata anche per riabilitarne l’immagine – conclude Sergio Ruffino – perché nel bene e nel male ha lasciato uno squarcio a Palermo permettendo di vedere quelle convergenze e cointeressenze politico-mafiose che nessuno osa davvero mai confermare; oltre che una ferita ancora aperta nella città, che potrà chiudersi soltanto quando Insalaco uscirà da questa sorta di “limbo”: che a Palermo non è altro che l’Eterno Presente”.
Il documentario ed il libro di Ruffino, che saranno pronti a breve, sono anche due progetti “propedeutici” per “Cento Giorni Sindaco”, la sceneggiatura che il regista ha scritto già da alcuni anni e su cui sta lavorando per realizzarne il film per il cinema.
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