Ci sono vigilie e vigilie di Natale. Quella che ci racconta Giosuè Calaciura nel breve romanzo Il tram di Natale edito da Sellerio è una vigilia condita di mestizia. Che apparentemente chiude ogni spiraglio alla speranza.
E’ la mestizia di chi è relegato ai margini della società, ingabbiato nella routine di una quotidianità spietata, sorda ai richiami del cuore, refrattaria alle regole dell’umanità. Una mestizia che avvolge e contagia il variopinto universo degli ultimi: extracomunitari, poveri che a stento sbarcano il lunario, anziani soli; quell’universo che ispira da sempre la creatività di Calaciura, a cui l’autore ha giurato fedeltà, indifferente ai trend editoriali.

La sera del 24 dicembre sembra una sera come tutte le altre in un tram che scorre sulle rotaie delle periferie più estreme. Sono pochi i passeggeri ma accomunati dalla precarietà delle loro esistenze. Un vedovo coi capelli tinti nel goffo tentativo di ringiovanire e una prostituta di colore di cagionevole salute: coppia di una sera in cui l’intimità tra corpi è il baratto di una modestissima cena; un filippino che torna dalla sua prima giornata di cameriere assillato dal timore di perdere il lavoro per una macchia di caffè sulla manica della giacca da maggiordomo presa in prestito; il venditore di ombrelli deluso per la pioggia non caduta a dispetto delle previsioni; William, un ragazzo africano che sogna la sua terra e la materna sorella di cui ha perso le tracce; il mago del Bangladesh che non ricorda più i segreti dei suoi trucchi per l’insorgere dell’alzheimer collezionando magre figure dinanzi a misere platee.

E nel tram salgono anche i Volontari della Patria, fascistoidi coi calzini bucati animati da intenti bellicosi sbolliti dalla fifa. Come pure, verso le ultime fermate, sale un’infermiera –figura di spicco nel contesto della trama- che accudiva con complicità di affetti un’anziana da poco passata a miglior vita. Ma soprattutto nel tram, lì abbandonato, viaggia un neonato di colore.

Ed ecco come quell’inattesa natività, quei teneri vagiti riuniscono il variegato grappolo di poveri, assorto in preoccupazioni incalzanti e distratto da vaghi desideri, nell’attenzione, mista a malcelato stupore, per una vita che si affaccia al consorzio degli uomini.

E’ un singolare presepe quello che raffigura Calaciura con la sua scrittura come sempre densa di poesia, popolato non da accattivanti statuine in cartapeste ma da uomini e donne in carne e ossa di cui riesce a farci sentire i cattivi odori che, nell’incanto del Natale, si sublimano in profumi. L’eco del Natale – il Natale in un tram delle più sperdute e dimenticate praterie del degrado urbano – giunge persino al conduttore del mezzo trincerato nel suo sedile di guida e sordo ai clamori delle fragili esistenze costretto a trasportare, che, come impazzito, si avventura, come mai aveva fatto, oltre il capolinea ‹‹nei quartieri dove il buon Dio non dona i suoi raggi››.

Non è un azzardo definire Il tram di Natale una favola metropolitana: una favola agrodolce, più amara che dolce. Lo autorizza la cifra stilistica sospesa tra la realtà e il sogno, il richiamo morale, proprio delle favole, l’atmosfera nonostante tutto natalizia che vi si respira nel segno di Dickens, cui l’autore fa appello anche nell’esergo. E ciò che colpisce in questa singolare favola metropolitana non è solo il miracolo della natività: è la pietas con cui l’autore, che conferma il suo straordinario talento narrativo, plasma le sue creature, persino quelle dai tratti cruenti.

Un’ultima notazione: il breve romanzo si adatta a una trascrizione teatrale, ed è probabile che come pièce teatrale sia stato inizialmente immaginato. E’ quasi un’opera drammaturgica, Il tram di Natale : capitolo per capitolo entrano in scena i personaggi, uno dopo l’altro, sino a comporre la compagnia degli attori. Né ciò stupisce: vi è, tra i tanti segni distintivi della prosa di Calaciura, una certa vocazione teatrale, spiccata nel suo romanzo d’esordio Malacarne. E chissà se questa vocazione teatrale Giosuè Calaciura non l’abbia ereditata dal padre, il compianto Anselmo Calaciura di cui quest’anno ricorre il decennale della scomparsa, giornalista di razza, per lunghi anni firma autorevole del Giornale di Sicilia e, per un breve periodo, direttore de L’ora, ma anche regista oltre che critico teatrale.